Recensione di FC SKRUNCH "Body-Soul-Spirit" per Musica Jazz (2014) - il:2014-12-24
Da Letteratitudine: "Francesco Cusa e la tentazione della letteratura", a cura di Claudio Morandini - il:2014-12-17
Da Letteratitudine: Francesco Cusa e la tentazione della letteratura
Francesco Cusa e la tentazione della letteratura
Bisogna intendersi sul termine “tentazione” – e cercheremo di farlo. Francesco Cusa è innanzitutto un musicista, un batterista, uno dei fondatori dell’etichetta indipendente “Improvvisatore Involontario” e – ecco la parola giusta – un agitatore culturale. Gli album a suo nome e i progetti in cui è coinvolto o di cui è l’ispiratore sono parecchi e ben rappresentati su disco e in rete (Skrunch, Skinshout, The Assassins, Jaruzelski’s Dream, Try Trio, nemmeno ci provo a elencarli tutti); ancora più numerose le collaborazioni con altri artisti del circuito del jazz più alternativo, quello che fatica a dirsi jazz e con il jazz ha parecchi conti in sospeso. Lì sta la matrice di Cusa, direi: nell’anima più profonda e irriducibile del jazz, nell’improvvisazione intesa come sfida, come superamento di limiti, come antagonismo rispetto alla materia trattata e alle attese dell’ascoltatore. Bene: un po’ ovunque, nella sua musica, comunque sia declinata, in qualunque organico sia eseguita, si sente una forte, non accidentale liaison con la parola letteraria, e questo ci intriga. Così, in attesa si scoprire che cosa ci riserverà “Love”, il prossimo album del collerico progetto jazzcore The Assassins (con la tromba di Flavio Zanuttini), previsto per il 2015, proviamo ad ascoltare alcuni dischi di Francesco Cusa, concentrandoci sui titoli del gruppo Skrunch, che comprende, oltre a Cusa, Paolo Sorge alla chitarra e Carlo Natoli al basso, più altri ospiti – o complici – occasionali.
Nell’album “L’arte della guerra”, pubblicato da Improvvisatore Involontario nel 2007, quel senso di sfida è enunciato sin dal titolo, e le citazioni da Sun Tzu declamate nel Prologo e nell’Epilogo diventano intenzioni programmatiche, dichiarazioni di poetica militante – quanto alla musica, pastosa, ritmica, appare ancora strutturata su modelli riconoscibili e autorevoli di jazz avanzato e “colto”. D’altra parte la guerra, in questa dimensione, è appunto un’arte, l’esercizio della tensione è una disciplina.
Più sperimentale e provocatorio, sin dal titolo, è “Psicopatologia di un serial killer”, del 2004, che si presenta come colonna sonora di un noir urbano immaginario assai perturbante – così perturbante che ci sfiora l’idea dell’iperbole parodistica: al tempo stesso l’album, nel “raccontare” in musica ciò che avviene nella mente di un criminale e nell’evocare gli ambienti che frequenta, è così ossessivo, dissonante, oscuro, elettrificato, notturno, contaminato di voci che ringhiano o bisbigliano, di sospiri e risolini e rantoli e gorgoglii, in una parola così vivido, che potrebbe anche essere usato come prova in un processo per omicidio. La copertina, poi, suggerisce, almeno nello spirito, un legame con certe sperimentazioni noir di John Zorn. Però, a ben vedere, il disco è “anche” e soprattutto (almeno nelle intenzioni) una psicopatologia: cioè una collocazione in una casistica, in un sistema di riferimenti e modelli. Alla fine non è tanto la voce diretta del serial killer che sentiamo, ma quella dello psichiatra che lo sta registrando e studiando (e che in buona parte ne resta affascinato).
E ancora: negli ammiccamenti di certi titoli come “Opinioni di un clown” ne “L’arte della guerra”, o “Buzzati’s Capture” in “Psicopatologia”, ci pare di notare, soprattutto, un ricorrente, anche giocoso richiamo alla letteratura nel processo generativo della musica. De “L’arte della guerra” abbiamo già parlato. In un album del 2010, “Jacques Lacan. A True Musical History”, l’appiglio letterario-filosofico è subito chiaro, assieme all’intento umoristico (e umorale) dei titoli fondati su giochi di parole o su accostamenti spiazzanti e, almeno all’apparenza, pretestuosi: “Le can can de Lacan”, “Le Lancôme de Lacan”, “Lacan on the Bitch” (sic)… La musica, insomma, rimanda sempre a un’idea di conflitto, di disagio, di tensione, di sfida, di beffa anche. E a fare le spese – musicalmente parlando – del particolare sense of humour di Cusa e degli altri suoi correi, oltre a certi stilemi della musica per film o del jazz come il vocalese, è anche l’hard rock più enfatico (in “Lacan Boys”).
“A true musical history”, il sottotitolo del disco, ci dà comunque, credo, una possibile chiave di lettura della poetica di Cusa: la musica “è” racconto, narrazione obliqua, allusione a strutture narrative che si nutrono di ogni possibile suggestione (letteraria, musicale, cinematografica): ed è true, cioè suona “vera”, ironicamente, proprio perché è “falsa”.
Ma la tentazione della letteratura in Francesco Cusa si manifesta anche in una forma più propriamente scritta. Sto pensando alla raccolta “Novelle crudeli”, ripubblicate da Eris nel 2014, un saporito catalogo di efferatezze e sgradevolezze in cui sarebbe difficile trovare lacune. Cusa ne sta proponendo, in una serie di concerti-spettacolo, delle letture pubbliche. La musica, di Cusa stesso e dei musicisti conniventi (Nicola Fazzini, Emilio Galante, Gabriele Evangelista: cercate le loro performance su youtube), non può aggiungere molto a testi già così espliciti, che nei video sono ulteriormente amplificati dalla recitazione di Alessandro Cevasco: e si limita a postillare qua e là, a puntualizzare in interventi che sembrano note a piè di pagina.
Ecco allora teratologie raccapriccianti, abbondanti spalmate di grottesco (“Nordmende Zappalà”) volentieri coprolalico (“Salvatore foderato di mestruo”), brutalità stilizzate da cinema americano tra fratelli Coen e Tarantino (“Desmond e Jack”) mescolate con tirate filosofiche, sipari levati d’improvviso su tabù infranti, e poi paure infantili (“Preghiera”) e lati oscuri adulti (“Contro la femmina”), sguardo dilatato sui dettagli che, ingranditi, diventano mostruosi, sarcastiche vendette musicali di sapore zappiano (“101 storie zen sul jazz”, a modo suo davvero crudele, musicalmente parlando, contro ogni deferenza al jazz).
Anche qui si intuisce una volontà di sistematizzare, studiare, filtrare – sembra di sentire, come si diceva prima, più che la voce dei casi clinici, quella dello studioso di casi clinici, per quanto affascinato della materia trattata.
Questa tensione violenta, irrisolta, plateale, virgolettata e incoerente come in certe sequenze di David Lynch, pare a volte trovare una sua dimensione, un equilibrio – proprio come in Lynch, attraverso l’immersione in una dimensione meditativa e contemplativa. La musica diventa allora il “racconto” di questa ricerca, di questa immersione: il racconto del successo o, a seconda dei casi, del fallimento. Lo si avverte in particolare nelle intenzioni di un progetto come “Tan T’Ien”, con Luca Dell’Anna alle tastiere e Ivo Barbieri al contrabbasso (quello insomma che in altri contesti chiameremmo un trio).
Nel recentissimo “Body-Soul-Spirit” (sempre Improvvisatore Involontario, 2014, e sempre attribuito al progetto Skrunch) questa dimensione contemplativa si delinea con chiarezza inedita: i titoli non giocano, non ammiccano (sono, semplicemente, numeri secondo un ordine non consequenziale, a cui talvolta si aggiungono tra parentesi parole-emblemi, “Darkness”, “Light”…). L’irrequietezza che in altri album sembrava sfogo incontrollato, raptus violento (pur strutturato in una forma e secondo un linguaggio), ora diventa ricerca di una dimensione nuova, tensione verso un equilibrio magari precario ma funzionante. Non vi è parodia, non vi è ammiccamento cinematografico, non sono più avvertibili allusioni letterarie, sovrapposizioni o sottotracce. Gli strumenti cercano, rovistano a lungo nei suoni, sembrano trovare un’intesa, sembrano andare alla ricerca di un linguaggio comune e insieme nuovo, lontano da ogni modello o da ogni riferimento.
Recensione del cd Mansarda - il:2014-11-25
Sintonie: "Mansarda" (da "Letteratitudine")
“Mansarda” è il nome di un quintetto anomalo, composto da Marta Raviglia, voce, Henry Cook ai sax e al flauto, Giacomo Ancillotto alla chitarra, Francesco Cusa a batteria e percussioni, Roberto Raciti al contrabbasso; riunitisi per la prima volta nel 2009, hanno dato luogo a una musica totalmente improvvisata, le cui tracce costituiscono la prima parte del CD omonimo pubblicato da Improvvisatore Involontario nel 2011; la seconda parte è stata registrata nel Monk Studio con lo stesso spirito, e con lo scopo di arricchire di nuovo materiale la pubblicazione del CD.
Musica totalmente improvvisata, si diceva: ma da parte di musicisti che lo sanno fare con maestria, non cincischiano a vuoto, sanno contare su un’intesa perfetta e immediata, strutturano e destrutturano con sapienza e divertimento, e sono spinti da un gusto comune per la variazione, per la deviazione inaspettata, a non soffermarsi mai più di una manciata di minuti su un’idea, su un’intuizione.
“Mansarda è il respiro del Minotauro, lo specchio di Perseo, il calice di Dioniso” si legge nel booklet del CD. Curiosamente non è citato “il vaso di Pandora” in questo breve elenco di allusioni mitologiche, e forse per evitare un riferimento un tantino ovvio. Sta di fatto che l’ascolto della musica di Mansarda suona davvero come lo scoperchiamento di un vaso di Pandora.
È musica che tritura e rielabora tutto il paesaggio sonoro dei nostri giorni e ce lo restituisce riassemblato e distorto in chiave esasperata, spesso sarcastica. Il sarcasmo, a dire il vero, è soprattutto della voce, di Marta Raviglia, e sta nel suo uso delle parole, nel suo improvvisare con il senso delle parole attraverso il ricorso a ritagli di giornale, dispacci radiofonici, frammenti di canzoni, brandelli di conversazione, giù giù fino ai singoli fonemi, agli strilli, ai gorgheggi, ai sospiri.
Il senso del divertimento è ben avvertibile nei titoli (“Le ultime lettere di Alberto Fortis”, “Tony Blair witch project”, “Tu mi tiri coriandoli d’asfalto onde celebrare la tua Viareggio stanca”, “Henry goes to Hollywood”…), titoli che però il più delle volte ingannano, perché sono dati (a posteriori, si direbbe) non a parodie saldamente filologiche (alla, che so, Frank Zappa, o alla Elio e le Storie Tese) ma a guizzi, talvolta di pochi secondi, a frammenti estemporanei (potrebbero venirci in mente certe cose di John Zorn: ma qui si improvvisa davvero, e ci si diverte di più).
Marta Raviglia ama usare la sua voce come strumento (a fiato, ma anche a percussione, e pure ad arco, to’), svincolandola dal condizionamento del senso delle parole di un testo. In “Mansarda” Marta si abbandona spesso a questo post-vocalese. Non è la prima volta, certo, ma questo è il progetto nel quale lo fa con più accentuata radicalità. Quando Marta (con un’attitudine riconducibile pur sempre a una matrice jazzistica) applica il procedimento dell’improvvisazione alla elaborazione estemporanea di un testo, come dicevamo, va a pescare nei cascami dell’informazione contemporanea, in reminiscenze di vecchie canzoni (ah, la sublimità di quelle parole così indispensabilmente “stupide”!), o di arie d’opera, oppure lascia andare la lingua, e sembra seguirne il tour tra le associazioni.
Un paio di esempi tra i tanti. Ne “Le ultime lettere di Alberto Fortis” Marta esordisce sola, con un breve, intenso sproloquio sull’assioma che “il sentimento è sentimentale”. Segue un rock lento, monoaccordale, “ipnotico”, come si diceva una volta, su cui ora la voce di Marta, distorta, si dilata in urli strazianti (ma sempre impeccabilmente intonati); riprenderà alla fine l’uso della parola, per enunciare frammenti di isolata insensatezza.
In “Per gole sì”, la spiritata parodia di un’aria d’opera metastasiana (in ottonari) tirata per le lunghe come tutte le arie d’opera, adagiata sull’accompagnamento disturbante e incongruo (e sempre più allusivamente funky) degli altri strumenti, si alterna a vocette, strilli, e verso la fine a commenti parlati (accenni di un rap petulante) e a interiezioni come “Oh yeah”. Qui la soprapposizione di toni e componenti musicali e extramusicali non cerca la sintesi, ma gioca sull’antitesi, sull’attrito – il che, invece di urtarci, ci diverte fino alle lacrime
In “Surdu Mihai” una notizia di cronaca nera e di intolleranza etnica si dilata in un canto svagato su un ritmo imperturbabile di bossa nova. In questo caso il senso del macabro prende la via del grottesco, del paradosso: il povero cadavere (“in putrefazione”) della vittima di un incidente viene rinvenuto da una passante, portato a casa, posto sul divano, accanto al marito, coccolato come un ospite di riguardo (“Un vero cadavere a casa! Quanto di meglio ti possa capitare/oggigiorno”). Il ritmo spensierato della danza brasiliana dà un colore da salotto borghese appena un po’ fané, da modernariato anni sessanta, il che accentua, invece di attenuare, la crudeltà del testo. In questo brano, il programma di avvicinare alla forma canzone la creazione estemporanea è rispettato più che in altri, il che è davvero singolare, visto il contenuto trucidamente provocatorio del testo.
Il macabro ritorna nell’assai più minacciosa ultima traccia, “V come Veronica” (l’unica attribuita alla scrittura di Francesco Cusa), tour de force vocale alla deriva tra efferatezze mormorate o ringhiate (sangue a fiotti, decapitazioni, deliri spiritualistici e/o demonologici), frasi registrate anche al contrario, parole non sempre distinguibili dalle azioni di disturbo degli strumenti – una conclusione tutt’altro che accomodante.
Ecco, il vaso di Pandora si è per il momento vuotato, i detriti e i cascami del nostro mondo (della nostra civiltà, ma anche del nostro paesaggio interiore, soprattutto delle zone meno battute) ne sono usciti a ondate, e non siamo più capaci di rimetterli dentro. Che importa? Ci rallegra che gli stessi musicisti di Mansarda programmino (minaccino) di far uscire “a scadenza biennale” un nuovo disco, “un nuovo viaggio”.
http://letteratitudine.blog.kataweb.it/2010/06/25/letteratura-musica
Una mia intervista per Jazzitalia - il:2014-11-16
Il giro d'Italia a bordo di un disco
Francesco Cusa, Improvvisatore Involontario
novembre 2014
di Alceste Ayroldi
Nuovo appuntamento con "Il giro d'Italia a bordo di un disco", questa volta con Improvvisatore Involontario nella persona del batterista e compositore Francesco Cusa.
Qual è la vostra filosofia di vita? Perché fare il discografico?
Nasce da una duplice esigenza. Da un lato la necessità di produrre musica senza dover "dipendere" dalle scelte di altre label (o dagli eventuali rifiuti). Dall'altra da una passione viscerale per le musiche contemporanee, nel tentativo di fare emergere ciò che continuerei a definire "underground", senza tema di smentita.
Come reperite i nuovi talenti?
Non reperiamo alcun nuovo o vecchio talento. Esiste la musica e chi la suona, il resto essendo stimolo e prurito di certa nosologia dell'oggi. Siamo una realtà artistica aperta. Chiunque ne può far parte. Così come accogliamo le proposte discografiche di esterni e interni a Improvvisatore Involontario.
Come scegliete i musicisti?
In base al nostro gusto. Come più o meno potrebbe sceglierli un qualsiasi altro discografico.
Quali sono le vostre politiche relative alla distribuzione?
Facciamo molta difficoltà perché proponiamo supporti desueti, quali il cd, che notoriamente, risente di una crisi decennale. Certamente non aiuta la disgraziata pressione fiscale che grava sul prodotto.
Quali mezzi utilizzate per raggiungere il vostro pubblico, anche potenziale?
Tutti i mezzi leciti. Adesso disponiamo di un agguerrito ufficio stampa, grazie alla bravissima Cinzia Guidetti. Dal sito, alla newsletter, passando per i social network: tutto pare funzionare a meraviglia.
A cosa è dovuta la crisi del disco? E' da attribuire a mp3, peer to peer, o c'è dell'altro?
E' sempre un insieme di concause che determina l'entropia o il collasso di un sistema. Certamente le nuove modalità di fruizione, la musica liquida, hanno avuto un ruolo determinante. Però ciò non spiega, ad es., il ritorno di fiamma del vinile, ossia di un supporto ben più "ingombrante" del cd medesimo. Inoltre c'è da appurare quale sia poi il settore di riferimento del supporto, le aree dei generi e dei sottogeneri: jazz, pop, rock ecc. Nel caso specifico del jazz, vi è una maggiore resistenza, dovuta forse al valore di "feticcio" del cd, spesso oggetto di crapula da post concerto, scalpo da mietere sistematicamente. Se ci si pensa bene è un assurdo nell'era di Spotify. Ci piace pensare che sia una cosa positiva (anche se non esiste alcuna ragionevole base per fondare tale bonaria sensazione). Personalmente vendo quasi tutti i miei cd ai concerti.
Qual è lo scenario futuro?
A) Il passaggio di Nibiru e la fine della specie. B) Una rivolta di jazzisti e metalmeccanici capeggiata da Giuseppi Logan. C) La fine del monopolio Siae e la defiscalizzazione delle musiche d'arte. (L'ipotesi A è di certo quella più attendibile dal punto di vista probabilistico).
Per combattere il nemico comune non sarebbe meglio coalizzarsi? Quali sono gli ostacoli alla creazione di un consorzio o un network?
La questione meridionale, la città-stato, il Vaticano. Non è una provocazione. Le ragioni storiche di questo paese rivestono ruolo fondamentale nell'evoluzione di qualsivoglia aspetto delle vita sociale, culturale e politica di questo paese. Ogni tentativo in questo senso - del coalizzarsi, - è destinato a fallire, giacché sono i particolarismi a rendere eccellenti le qualità dell'italiano medio. Astrarre la "nebulosa jazz" da un contesto generale è operazione capziosa ed alla fin fine stucchevole. La frammentazione culturale rende frastagliata la proposta, non essendoci poi una vera "scena", dei poli attrattori, quale altrove potrebbero essere New York, Amsterdam o Parigi. Ne risulta uno scenario paradossale, in costante fibrillazione. Nel caso del jazz nostrano, tutto il baraccone sembra tenersi assieme grazie ad un senso dello "straordinario", d'una "fenomenologia dello stupefacente". Ogni cosa viene infarcita di dettami, dogmi e stilemi, esacerbata da ipertrofie maniacali. Non che da altre parti questo aspetto sia assente. Ma è dettaglio di un sistema che prevede criteri di selezione altri, forse spietati, ma quantomeno logici. In altre parole siamo un paese provinciale e dunque inevitabilmente esterofilo.
Anche le major non godono un buon stato di salute. In periodi di crisi è meglio essere "più piccoli"?
La "Crisi" è sempre una benedizione. Crollano vecchie ideologie, si mettono a ferro e a fuoco i palazzi dei vecchi tiranni. Come la muta del serpente, essa è funzionale al "cambiamento". Questa non è una crisi del settore. Semmai è una crisi epocale. Nell'ambito museale del jazz nostrano, riterrei più opportuno semmai parlare di ristagno, di stasi. Gli ultimi decenni hanno visto sperperare immani risorse nell'ambito delle musiche jazz, comunque si voglia definirle. Le oligarchie che gestiscono la grossa fetta della torta, rappresentano i feudi di un sistema arroccato su se stesso, che si fagocita da solo. Le "politiche culturali" (uso un eufemismo) degli ultimi decenni hanno finito col castrare qualsivoglia necessità dialettica tra i "vecchi e giovani". È emerso dunque un quadro nominalistico, parrocchiale, che ha finito con l'appiattire la proposta diffusa, determinando una peculiarità tutta nostrana: la mancanza assoluta di un confronto (o di uno scontro) tra generazioni di musicisti. Ciò è stata prerogativa d'ogni libera espressione artistica che si rispetti, da che mondo è mondo. Non si parla di grandi cose tipo, che ne so, il Surrealismo o l'avvento della Musica Seriale. Ci si riferisce a certa temperie, che determina, nello scambio dialettico e aspro, le micro-fratture, le venature e le crisi di alcuni fattori del gusto estetico, predisponendo il terreno agli avvicendamenti dei protagonisti che abitano la scena di riferimento. Dunque in Italia si vive una sorta di congestione. È passata questa mitopoiesi del "mercato del jazz", quasi di " default", ossia delle peculiarità del pop prestate alle dinamiche di un contesto differente, in una operazione di mimesi in senso brutto. Da qui quanto ne consegue. Il dramma è che queste cose le dicono oramai in pochi. I giovani, che dovrebbero mettere a "ferro e fuoco" il tutto, sono indolenti e come impauriti. Non si capisce che cosa abbiano da perdere.
Cosa potrebbero fare le istituzioni per migliorare e aiutare il settore, soprattutto per la lotta contro la pirateria?
Anche qui. La pirateria è l'altro risvolto della medaglia. Un falso problema. I Wu Ming, pubblicano per Einaudi ma autorizzano i lettori a fotocopiare il libro. Occorrerebbe liberalizzarlo integralmente questo mercato, altroché! Sono gli hacker che consentono lo sviluppo di nuove e rivoluzionarie applicazioni.
La vostra struttura organizzativa si completa con il management? Ritenete, comunque, che possa essere utile per completare il percorso e fidelizzare al meglio i vostri artisti?
Sarebbe auspicabile. Ma nessuno può fare il manager in Italia perché il "mercato" è monopolizzato (vedi sopra). Ci abbiamo provato, ma sbattono tutti contro dei muri di gomma. Parliamo di decenni di tentativi.
Quali sono le difficoltà che incontrate e qual è la tendenza del mercato dello spettacolo dal vivo?
Il paradosso è che ai nostri concerti c'è sempre un grande entusiasmo. La crisi degli spettacoli dal vivo ha radici profonde che non sono necessariamente inerenti alle peculiarità di questa musica. C'è anche da dire che molta gente si è stufata di vedere sempre i soliti nomi maramaldeggiare nei festival (questo sia detto con il massimo rispetto per gli artisti che vanno per la maggiore. Non è mai un problema personale ma di trend generali). Il pubblico stagionato mantiene ancora in equilibrio la bilancia di questo circo, come quello dei pensionati i talk show televisivi. Si è forzatamente determinato un circolo vizioso che coinvolge organizzatori, manager e artisti: non si capisce se è il pubblico a inseguire il jazz o il jazz ad inseguire il pubblico. Ma sento che la giostra prende a girare in senso inverso. Il periodo della vacche magre non risparmia nessuno. (Ovviamente sarò smentito a breve, e mi prenderò gli sberleffi di turno).
A tal proposito, come giudicate lo stato di salute del jazz attualmente (sia quello italiano, che internazionale)?
La sostanziale differenza tra l'Italia e l'estero (generalizzando) è che qui manca un forte senso della comunità tra musicisti di jazz. Le ragioni penso di averle espresse in precedenza. Quello che è stato fatto è stato reso possibile grazie alle indolenze della nostra categoria.
Il pubblico del jazz, almeno in Italia, è statisticamente provato che sia formato perlopiù da persone over 35 anni. In altri stati, però, ciò non succede. Secondo te quali sono i motivi di fondo? I prezzi dei biglietti sono troppo alti? Il jazz non trova spazio negli ordinari canali di comunicazione dei giovani? E' frutto di una crisi culturale?
Semplice: tutto, dai conservatori alla gestione dei festival, è (in larga parte e fatte salve alcune eccezioni) in mano a dei parvenu, ovvero a delle figure non professionali. Il dilettantismo amatoriale, certa intraprendenza dei simpatizzanti ha finito col determinare svariati trend. La poetica (jazz) di una nazione è frutto di cotanta solerzia. Il nascente MIDJ dovrebbe riuscire a far proprie certe istanze, in una disperata, ma quanto mai necessaria, inversione di tendenza che oramai si impone. la nave è quasi sugli scogli.
E' un fenomeno che mi dispiace constatare, ma la tendenza dell'Opera è quella di annoverare un pubblico sempre più giovane. Forse anche per il fatto che molte opere sono rivisitate da registi di chiara fama che lo hanno svecchiato parecchio. Nel jazz, però, anche lo svecchiamento non sempre porta risultati entusiasmanti. Come mai?
Perché le opere per cominciare a svecchiarsi ci hanno messo più di trecento anni (ah, le stanno svecchiando?). Aspetterei dunque qualche secolo per vedere le gesta dei nostri campioni nostrani, messe in scena da chissà chi...magari in chiave patriottica. Certo una "Ode al Jazz Italiano" non sarebbe malaccio.
Non pensi che il jazz, in Italia, difetti in organizzazione e coordinamento? Sarà forse perché lo Stato e gli enti territoriali lo tengono sullo stesso livello delle sagre di paese (con tutto il rispetto anche per queste)?
Rovesciamo la prospettiva. Sono le sagre di paese che tengono insieme la baracchina jazz. Vogliamo analizzare come vengono titolate la maggior parte delle rassegne di jazz? Naaah. Jazz è oramai sinonimo di abbinamento gastronomico, nella stragrande maggioranza dei casi. Diciamo che il jazz italiano - quello rappresentativo, chè ci stanno anche musiche e musicisti straordinari, - mi ricorda il contadino col vestito buono della domenica. In questi ultimi vent'anni, si è esacerbata una estetica del genere, e in questa "casamatta del jazz peninsulare" sono confluite istanze d'ogni genere, in forme di ibridazione non proprio pertinenti, con collassi tra significato e significante, e conseguente deriva dell'oggetto estetico. Ripeto: non è un problema di musicisti e bravura. Parliamo oramai di eccellenze, sia chiaro, in tutti gli ambiti espressivi. Riducendo all'osso la questione: è un problema di alternanze delle proposte e varietà. Queste iterazioni, ovviamente, producono risultati grotteschi. Quantomeno in chi ha il buon gusto di praticare le massime di Karl Kraus.
La diversificazione del prodotto artistico, e quindi discografico, anche al di fuori dell'ortodossia jazzistica, può essere utile, oppure ritenete migliore la specializzazione in un singolo settore musicale?
Il jazz è un linguaggio, come l'inglese o l'esperanto. E' musica di sincretismi. Senza una dialettica costante finisce per cristallizzarsi in schematismi e idiomi surreali. Certamente ci sono dei parametri di riferimento, estetici e di contenuti. Ma la specializzazione ha ucciso la Bellezza. Stiamo accorti.
Quali sono i prossimi progetti?
Fare le scarpe all'esistente.
Recensione di Francesco Cusa SKRUNCH "Body-Soul-Spirit" per Allaboutjazz - il:2014-11-11
By NERI POLLASTRI, Published: November 10, 2014 | 98 views
Francesco Cusa "Skrunch": Body-Soul-Spirit
In bilico tra molti generi diversi, questo lavoro del batterista siciliano Francesco Cusa, anima di Improvvisatore Involontario, si muove tra atmosfere che mutano dalla sospensione ricca di suggestioni—che si avvale di voci e rumori campionati da Emilio Galante—alla materica intensità downtown—sostenuta dall'ipnotico basso elettrico di Carlo Natoli.
Il disco è incorniciato da due parti—una introduzione e una coda—oniricamente metropolitane, nelle quali i suoni elettronici affiorano tra voci e rumori, per poi assumere l'incedere più intenso che caratterizza il lavoro. Il quale, aldilà della divisione in tracce, procede senza soluzione di continuità e anzi con qualche reiterazione, che entra a far parte del flusso sonoro in continuo divenire.
La narrazione è libera, improvvisata e non riassumbibile. La varietà espressiva è però penalizzata dal suono fondamentalmente elettrico, che conferisce al tutto da un lato coerenza, dall'altro anche un'apparenza di uniformità ripetitiva. Che pertanto rende il disco interessante soprattutto agli appassionati del genere e del sound tecnologico.
Track Listing: Two; Zero (Darkness); Zero (Light); Seven; One; Nine; Six (Cry); Six (Laugh).
Personnel: Francesco Cusa: batteria; Emilio Galante: flauto, live electronics; Paolo Costa: chitarra; Carlo Natoli: basso elettrico, chitarra baritono; Lino Costa: chitarra; Luca Lo Bianco: contrabbasso.
Record Label: Bunch Records
Recensione di Novelle Crudeli per "Il Diario di Castrovillari" - il:2014-10-25
Cvasi Ming, formata da: Wu Ming 1 alla voce Francesco Cusa alla batteria e Vincenzo Vasi al basso e theremin. LIVE A PAVIA - il:2014-10-24
Zó bòt!!! Live in Pavia, 21 ottobre 2014
Zó bòt!!! è il progetto di improvvisazione radicale musiche/testo portato avanti dalla band Cvasi Ming, formata da:
Wu Ming 1 alla voce
Francesco Cusa alla batteria
e Vincenzo Vasi al basso e theremin.
La collaborazione di WM1 con Vasi e Cusa è ormai di lunga data. Questa è la registrazione completa del reading/concerto magnetico tenutosi allo Spaziomusica di Pavia la sera del 21 ottobre scorso. È un’unica suite di un’ora e sedici minuti. Nell’ultima parte della serata si è unito a noi un altro musicista (e giapster), Luca Casarotti alla tastiera. Dopo un prologo tratto dall’Ouverture, si narra la genesi del supereroe Scaramouche, se ne raccontano alcune gesta e si conclude con l’omaggio della vox plebis a Robespierre, che sfocia in una cover improvvisata lì per lì (epperciò sguaiata) di Cura Robespierre del Wu Ming Contingent.
La presentazione di Novelle Crudeli a Castrovillari su Tele Pollino - il:2014-10-19
Articolo su Novelle Crudeli per la rivista IL DISPACCIO - il:2014-10-19
Castrovillari (Cs), le novelle crudeli di Francesco Cusa
Stampa Email
Share
Una sera d'ottobre a Castrovillari, intorno alle venti, al piano superiore dello studio fotografico "L'Immagine", l'atelier-covo di Annamaria Caputo e Carlo Maradei, ad ascoltare l'intrigante/spiazzante reading dalle "Novelle crudeli" del versatile artista Francesco Cusa.
Catanese, musicista e compositore jazz, scrittore ("di novelle ed aforismi", confessa lui, "perché nella forma-romanzo mi perderei") e critico cinematografico, insomma una sorta di compendio vivente di versatilità e irrequietezza, Francesco Cusa ha letto ad un pubblico guerrigliero alcune delle novelle allo humour nero pubblicate nel bel volumetto edito da aprile per i tipi delle Eris Edizioni. Titolo eloquente della raccolta: "Novelle crudeli"; inequivoco sottotitolo: "dall'orrore e dal grottesco quotidiani", cui fanno da generoso corredo le illustrazioni di Daniele La Placa, sospese tra umorismo macabro e trepido orrore.
Parabole senza paracadute, quelle del nostro autore, dai toni molto jazzy, sovente virate sulle tinte e sugli umori del grottesco. Novelle viscerali, dense di situazioni singolarmente estreme, graffianti e sorprendenti, ricche di arguzie e rimandi tra le righe (specie a visioni cinematografiche ma pure ad un certo teatro contemporaneo per spiriti forti, quello di Emma Dante ad esempio, altra siciliana senza paura) come segni sfrenatamente disseminati qua e là; racconti di fulminante concisione talora e più stratificati appena qualche pagina in là, attraversati da abbondanti rivoli di comicità, di aforismi bizzarrie di divagazioni borderline, in un pressoché ininterrotto flusso di parole e di suoni sapientemente amalgamato dalle improvvisazioni/accelerazioni/degenerazioni al contrabbasso dell'altro Carlo (Cimino, ottimo musicista e simpaticissimo conversatore) presente in sala.
Dietro una matassa che si dipana in cinquantacinque brevi incontri, tutti connotati da una notevole cura delle parole e una prosa originalissima, Francesco Cusa racconta così una certa visione del mondo, notturna e senza implicazioni né morali né moraleggianti, in una sorta di Antologia dello Spoon River alla rovescia, cioè sprovvista di qualsiasi pietas o comprensione o forma di tenerezza per chicchessia, in cui una sfilza di personaggi negativi (inventati o presi dalla vita reale, con frequenti riferimenti biografici all'autore stesso) viene fissata sulla carta e nella memoria alla stregua di uno sciame di insetti colti sul punto di conoscere il proprio inevitabile destino, la morte. Quella morte che si rivela sì provvidenziale – le vittime essendo in gran parte dei gran mascalzoni o delle cariatidi o dei lerci o degli avidi e gretti – ma non certo "divina". La galleria umana di queste novelle è in realtà un bestiario ripreso e riprodotto all'acme del suo peggio, sicché i suoi rappresentanti sono persino spassosi – difatti durante il reading, tra un ghigno e un pensiero ostile, si ride spesso e di gusto – ma pur sempre dei mostri tout court e costituiscono la norma esistenziale, non l'eccezione vilipesa e perseguitata di un'altra vita parallela ma degli autentici paradigmi di ripugnanza fisica, estetica e comportamentale. La speciale bravura di Cusa consiste nello scovare questi tipi insani cogliendone ogni curva sghemba e tutti i più oscuri angoli fino al culmine di una fatale linea spezzata, l'inevitabile dipartita da questo mondo.
L'incontro con Francesco Cusa, questo improvvisatore involontario nonché demoniaccio siculo di multiformi talenti, si è alfine rivelato ricco di sollecitazioni, vitale nella capacità di dar corpo a sensazioni/suggestioni sorprendenti e, come si conviene a esperienze intelligenti, tutt'altro che rassicuranti – anzi, di volta in volta sgradevoli, disgustose, ridicole, disorientanti, appiccicose, bislacche, priapiche, grottesche, etc. etc. – rivelando, quasi per ripicca verso un mondo superficiale e senza giuste prospettive, la vera natura del genere umano e dei rapporti che lo riguardano. Questione che attraverserà pure la raccolta di aforismi che Cusa sta per consegnare alle stampe e dei quali l'autore ha dato qualche sapido esempio nel corso del coinvolgente reading.
"Il sogno americano in musica dell'Italian Surf Academy". L'ITALO AMERICANO - il:2014-10-18
Un viaggio indietro nel tempo che porta lo spettatore a rivivere la cultura cinematografica italiana dei grandi classici degli anni ‘60.
Attraverso l’esecuzione dal vivo di celebri brani musicali e suggestive proiezioni video, il quartetto dell’Italian Surf Academy ha messo in scena il suo “American dream” presso la galleria Emerald Tablet di San Francisco, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di San Francisco.
Il quartetto formato da musicisti di origine meridionale, per la prima volta a San Francisco, ha reinterpretato con sonorità jazz, blues, rock e strumentale musiche dalle colonne sonore degli spaghetti western, film noir e polizieschi, composte da maestri come Ennio Morricone, Luis Bacalov, Carlo Rustichelli, Armando Trovajoli e tanti altri.
Il gruppo italiano Italian Surf Academy si e' esibito alla galleria Emerald Tablet di San Francisco
È così che grazie all’eclettismo artistico di Marco Cappelli (chitarra), Luca Lo Bianco (basso), Francesco Cusa (batteria) e Andrea Pennisi (visual), ci si trova dapprima in un film di James Bond, per poi passare ai capolavori di Sergio Leone “Per un pugno di dollari” e “Il Buono, il brutto, il cattivo”, “Django” di Sergio Corbucci, fino a “Diabolik” di Mario Bava (con colonna sonora di Morricone), considerato uno dei migliori film pop degli anni anni ‘60.
“L’immaginario del western e del sogno americano fa parte della nostra cultura d’infanzia”, ci ha detto il chitarrista Marco Cappelli, di origine napoletana, ma trasferitosi a New York.
“Le musiche che proponiamo sono tutte colonne sonore d’epoca, legate a quel mondo che in Italia era una proiezione di un immaginario americano filtrato attraverso la cultura italiana”.
Il progetto Italian Surf Academy, ispirato alla musica surf americana, ha preso vita nel 2010 in Italia riuscendo a riscuotere un grande interesse anche all’estero.
“Abbiamo cominciato quattro anni fa per gioco, facendo cover americane in Italia dove abbiamo visto che la cosa funzionava bene. Poi abbiamo avuto l’occasione di fare un primo tour negli States nel 2011, e abbiamo pensato che andare a suonare cover americane in America fosse una stupidaggine”, ha aggiunto Marco.
“Abbiamo avuto l’idea di indagare in questo repertorio dove tutta la cultura dei film era solo ispirata a questa cultura, con un riferimento chiaro alla musica surf americana, una musica melodica un po’ legata al rock and roll con dei fraseggi molto larghi.”
“Quindi abbiamo fatto un disco per la Mode Records, al quale è seguito un tour invernale in Europa tra Francia, Norvegia e Italia, tutto dedicato ai film di Barbarella. Infine, è arrivata l’opportunità di questo tour pazzesco tra Cina, Giappone e Stati Uniti. In Giappone, in particolare, hanno registrato per noi un disco dal vivo con brani tratti dagli Spaghetti Western che uscirà presto. Abbiamo anche ricevuto l’invito a partecipare a un festival molto importante la prossima estate.”
Nell’Italian Surf Academy, Marco sviluppa quelle sonorità che ha assorbito lavorando accanto ai nomi più importanti della scena musicale di New York, come John Zorn, Marc Ribot, Elliott Sharp, Anthony Coleman, Adam Rudolph, solo per citarne alcuni.
Il vj Andrea “Lapsus” Pennici, esperto nell’interazione fra musica e video, ci ha spiegato la scelta delle suggestive proiezioni che accompagnano la performance del gruppo.
“L’ispirazione e lo spirito del nostro gruppo sembra basata sull’improvvisazione. Dato che interpretiamo colonne sonore degli anni sessanta, ci sono delle citazioni prese dai film originali citati dalle canzoni, manipolati in maniera assolutamente originale. Io uso moltissimo l’avanguardia degli anni quaranta, sia nella velocità che nei colori, poi mixo esattamente come fa un dj, ma lo faccio con immagini”.
Il batterista e compositore Francesco Cusa, il quale ha oltre trent’anni di carriera musicale in Italia, oltre all’Italian Surf Academy, fa parte del collettivo artistico europeo Improvvisatore Involontario, nome anche dell’omonima etichetta discografica.
Il bassista Luca Lo Bianco, laureatosi al Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo dove ha ottenuto il master in Jazz e dove è ora professore di basso elettronico, ha suonato dal vivo in tutto il mondo. È, inoltre, uno dei membri fondatori dell’etichetta Fitzcarraldo Records e dell’Orchestra In-stabile DIS/ Accordo.
“Queste colonne sonore italiane vengono riconosciute in tutto il mondo, è forse per questo motivo che il nostro progetto sta avendo molto successo non solo in Italia, dove abbiamo suonato in molti festival e concerti, ma soprattutto all’estero”.
A seguire il concerto della Città sulla Baia, della cui atmosfera tutti i componenti sono rimasti affascinati, l’Italian Surf Academy ha concluso il suo tour internazionale con un’ultima tappa a New York, prima di fare ritorno in Italia.
È possibile seguire le tappe dei loro futuri concerti sulla pagina Facebook: www.facebook.com/italiansurfacademy
Seguimi!
PLAY MUSIC!