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Francesco Cusa - Official Website - Press

Recensione "Ridetti E Ricontraddetti" a cura di Raul Catalano - il:2016-03-22

http://raulcatalano.blogspot.it/2016/03/con-chi-ridetti-e-ricontraddetti.html?m=1

Perchè non possiamo non dirci filosofi
domenica 20 marzo 2016
Con Chi Ridetti (e Ricontraddetti)? Francesco Cusa
Un personaggio palesatosi spesso tra le pagine di questo blog ebbe a dire:


Nell'arte del linguaggio si chiama metafora ciò che ''non si usa in senso proprio''. Perciò le metafore sono le perversioni del linguaggio e le perversioni sono le metafore dell’amore (K. Kraus, Detti e contraddetti)


Francesco Cusa è un vero e proprio pervertito del linguaggio. Questo unabomber della parola si diverte a innescare un corto circuito linguistico dietro l'altro, mostrando come anche i termini più logori ed i modi di dire più comuni possano sorprenderci, farci ridere o riflettere. Cusa è dunque molto vicino al Wittgenstein delle Ricerche filosofiche che scriveva:


Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia! (Ricerche filosofiche, Einaudi 1983, p. 15).


E ancora, sempre Wittgenstein:


Noi combattiamo contro il linguaggio. Siamo in lotta contro il linguaggio. Se penso per me solo, senza voler scrivere un libro, mi metto a saltare intorno al tema; questo è l’unico modo di pensare che mi sia naturale. È un tormento per me pensare a lungo in una direzione forzosa. A questo punto, devo proprio tentarlo??
Io spreco indicibili fatiche per dare ai miei pensieri un ordine che forse non ha proprio nessun valore. (Pensieri Diversi, Adelphi 1980, pp. 60-61)


Piccolo aneddoto: Wittgenstein era un discreto pianista nonché fratello di Paul Wittgenstein. Mi piace pensare che questo pensiero sia stato ispirato al filosofo proprio dalla fatica del musicista che, dopo aver improvvisato e trovato qualcosa di interessante, si sente costretto ad incanalare questa sua scoperta in una forma o struttura condivisa e riconoscibile dagli altri. Cusa conosce molto meglio di me tutto questo processo, essendo batterista e compositore. E non è un caso che egli sappia sfruttare l'aforisma con una precisione chirurgica, calibrando ogni singola parola per arrivare all'effetto desiderato. Del resto ''uno che sa scrivere aforismi non dovrebbe disperdersi a fare dei saggi'' (Kraus). Non mi resta che lasciarvi nelle sue mani.







Francesco Cusa, Ridetti e ricontraddetti (Carthago 2016, http://www.libreriauniversitaria.it/ridetti-ricontraddetti-cusa-francesco-carthago/libro/9788898721467)




Inanismo: Vacuità esistenziale nel nano.



Delirio speculativo nel commercialista: Critica della Ragioneria Pura.



Ovviamente: dire palesemente bugie.



Piatto cannibale: L'inguine alle vongole.



Chi disprezza compàra.



Il contrario di Entropia è Escosacrilega.



Un'orata ci vuole per cucinare un pesce.




Ipertrofie al pesto: pantagruelico piatto ligure.



- ''Ciao sei un jazzista mainstream medio italiano?''
- ''What man?''.
- ''Dico, sei italiano, suoni jazz moderno, ti piace Sun Ra?
- ''Sorry man, I don't understandard''.



Vivere costantemente sull'orlo della contraddizione, con la dignità del faro e del mare in tempesta.


Non si può invidiare ciò che non si conosce. Si conosce ciò che non si invidia.


Forsennato: folle alla frenetica ricerca di una conferma della sua medesima (o di qualche natività).


''E' tutto un magma magma'' (considerazioni fra vulcani sullo stato clientelare delle cose).


Stress e nevrosi nelle carni bianche. ''Mi dia un'angoscia di pollo''.



Filosofo tormentato e nichilista: ''Gianni Vittima''.



Leggere tra le righe è qualità intermittente.

Raul Catalano a domenica, marzo 20, 2016

Recensione live in Prato: FRANCESCO CUSA&THE ASSASSINS, AVVENTURE URBANE TRA FUMETTO E AVANGUARDIA - il:2016-02-29

FRANCESCO CUSA&THE ASSASSINS, AVVENTURE URBANE TRA FUMETTO E AVANGUARDIA

http://www.artnoise.it/francesco-cusathe-assassins-avventure-urbane-tra-fumetto-e-avanguardia/

27 febbraio 2016 · by Niccolo Lucarelli · in Musica, Sorsi di jazz

PRATO – In un’edizione di Metastasio Jazz dedicata all’evoluzione del jazz europeo contemporaneo, con una particolare attenzione a quello italiano, è stata efficacissima, e ricambiata dal pubblico, la scelta della direzione artistica di inserire in cartellone il poliedrico Francesco Cusa, accompagnato dai suoi Assassins, ovvero Giovanni Benvenuti, Giulio Stermieri e Flavio Zanuttini. Un quartetto che si muove su un originalissimo binario di jazz, funky, elettronica, rock progressivo, utilizzato come estemporanea tavolozza di colori per dipingere la caotica realtà contemporanea.

Lo si comprende sin dalle primissime note di Wrong Measures, dall’album Love, che apre il concerto con effetti elettronici in dialogo con la distorsione della tromba, un oscuro suono metropolitano che sembra scaturire dalle viscere del sottosuolo, e portare sul palco l’inquietudine della città moderne; non appena il sax tenore interviene di supporto alla tromba, si crea un effetto stratificato, un jazz caotico che simula il rumore del traffico per le strade di Manhattan o di una qualsiasi città italiana, che stride sull’asfalto, mentre la vita scorre e pulsa lì accanto, suggerita dalla potente batteria di Cusa. Un brano in equilibrio fra jazz e funk, come detto, che ricorda in certe sue parti, e per la cupa atmosfera, Big City Life, del duo Mattafix.

Atmosfere più ironiche in Cherry Manson dall’album The Beauty and the Grace, brano che più di altri rivela la poliedricità di Cusa, e la sua vena di narratore con atmosphere che ricordano i fumetti, un po’ sulla scia di Mauro Ottolini; trama di questo brano didascalico, un incubo che, tramite il demone di Cherry, affligge le notti di Marilyn Manson. Un jazz ironico, trascinato da un vivace 4/4, con un bel dialogo tra Benvenuti e Zanuttini ai fiati, eseguito in stile free sul registro acuto, sostenuti da una batteria che procede “a strappi”, con pause improvvise e ripartenze forsennate, a suggerire il ritmo convulso e sfilacciato di un incubo. Un brano didascalico e guascone come un fumetto di Corto Maltese.

Parimenti ironico e accattivante, Shardula, ancora da The Beauty and the Grace, aperto da un fraseggio di fiati in stile manouche, che poi si lanciano verso un insistito motivo su tre note, di ambiente progressive. Qui, come in altri brani, si può apprezzare la versatilità e l’inventiva del quartetto, che non manca mai di sorprendere l’ascoltatore, mettendo a dura prova la sua attenzione con continui cambi d’atmosfera. E infatti il brano si chiude su una stratificazione di suoni che quasi invita il pubblico ad alzarsi e a ballare in platea.

Decisamente in controtendenza, l’oscuro e meditabondo Escher, dall’album Love, dedicato all’incisore e grafico olandese Maurits Cornelius Escher, le cui opere dalle prospettive impossibili, sorprendenti, che percorrono più dimensioni contemporaneamente, sono apparentabili alle composizioni di Cusa. Un brano aperto da un a solo di tromba quasi funebre, seguita da un inquietante organo chiesastico, che evoca oscure tinte preraffaellite. Dopo di che, con un repentino cambio d’atmosfera, i fiati riprendono la scena con zingaresca spavalderia, spinti su squillanti toni acuti e da un’incalzante batteria a tempo di marcia. Un brano “bipolare”, che ha in sé la sua identità e la sua negazione, che possono essere viste ognuna da entrambi i lati, esattamente come una delle tante illusioni visive di Escher. Anche ascoltando questo concerto, il pubblico si perde fra stanze e corridoi ora illuminati ora abbandonati a un’oscurità sconsolante, per poi ritrovarsi, senza spiegazione apparente, nel caos urbano o nel caos dei sentimenti umani. Uno su tutti, l’amore, cui è dedicata Anthropophagy, ancora da The Beauty and the Grace, la cui complessità è suggerita dalla briosa tromba di Zanuttini, e dal cupo sfondo ritmico dell’elettronica di Stermieri.

La presenza dei fiati, in questo come in altri brani, regala interessanti e godibili sequenze narrative, piccole storie brillanti a metà fra Salinger e Updike, a riprova di un jazz che cerca l’ironia,

A impreziosire il concerto, Disco Essential, un’anteprima del prossimo lavoro discografico di Cusa, ancora in fase di lavorazione. Si tratta di una dance oscura, andata a cercare ai confini settentrionali dell’Europa, con un timbro sonoro che suggerisce l’aurora boreale. Altra dimostrazione dell’attenzione di Cusa per quanto accade sulla scena musicale contemporanea.

Chiude la serata The Act of killing Music dall’album Love, che nel titolo riassume la missione che Cusa e soci si sono proposti: decostruire il jazz, “uccidendolo” metaforicamente, per riportarlo in vita attraverso contaminazioni contemporanee. Interessante il bis Chamunda da The Beauty and the Grace, ispirato all’omonima, inquietante divinità femminile del pantheon dell’Induismo, che guarisce dalle malattie strappando prima, e riposizionando poi, gli organi infetti nel corpo degli esseri umani. A suggerire ciò, l’effetto “lacerante” dell’elettronica. Un brano che ancora una volta è metafora dell’operazione di rinnovamento condotta da Cusa e soci, ambasciatori di un jazz d’avanguardia che racconta la quotidianità umana con pungente ironia e un pizzico di dissacrazione.

Niccolò Lucarelli


Recensione di Francesco Cusa & The Assassins a cura d Paolo Carradori (Il Giornale della Musica) - il:2016-02-23

http://www.giornaledellamusica.it/rol/?id=5173

ASSASSINI SERIALI
Francesco Cusa & The Assassins
organizzatoreTeatro Metastasio
comunePrato
strutturaFabbricone

Francesco Cusa & The Assassins per Metastasio Jazz 2016

Davanti a quattro assassini dichiarati più che un recensore servirebbe un buon investigatore. Sul palco del Fabbricone, nel terzo appuntamento di Metastasio Jazz 2016, il quartetto di Francesco Cusa convince sia sul piano del linguaggio che dell’atteggiamento, entrambi spregiudicati. Potremo definire il batterista-compositore siciliano un assassino seriale: sono anni che con i suoi progetti avventurosi tenta di sviare indagini sul suo percorso artistico. Con The Assassins però, nonostante inquini le piste con un’elettronica dal sapore vintage stesa come collante sonoro, saturazione dei vuoti, ci offre (involontariamente?) delle prove evidenti. Cusa ama il bebop, i ritmi incrociati, raddoppiati, le rullate di Art Blakey, scrive per i suoi solisti brevi frasi melodiche (Jazz Messenger?) per poi lasciargliele sporcare, imbrattare con scarabocchi fascinosi.
Compito che i suoi talentuosi compagni di viaggio eseguono alla grande: la tromba saettante e distorta di Zanuttini, il calore sghembo e astratto del sax di Benvenuti, i suoni scuri e acidi della tastiera di Stermieri. Il leader, in piena controtendenza rispetto ai suoi colleghi, non prosciuga ma accumula con maestria evoluzioni poliritmiche, figure sul rullante, magie sui piatti. Cusa dialogando con il pubblico gioca provocatoriamente anche con le parole, dichiara usurata la forma concerto, vorrebbe parlare di problemi esistenziali... Suicida più che assassino. Anche se con qualche calo di tensione fisiologico, un concerto di grande qualità costantemente attraversato come da una scossa elettrica, da un’idea profonda che non taglia ponti ma li estende in una credibile, inquieta continuità contemporanea della musica afroamericana. Alla fine la sentenza è scontata: colpevoli non per omicidio, ma per eccesso di creatività.

Paolo Carradori

FRANCESCO CUSA & THE ASSASSINS per Jazzit "LOVE" IMPROVVISATORE INVOLONTARIO (2015) - il:2016-02-16

Recensione di Francesco Cusa & The Assassins "LOVE" a cura di Marco Colonna per "Geografia di Resistenza" - il:2016-02-12

http://geografiediresistenza.blogspot.it/2016/02/francesco-cusa-e-lepopea-del-ritmo-in.html

Una nota veloce, in questo atlante per non rischiare di vederlo abbandonato già fin dai suoi vagiti.
Mi sembra doveroso parlare di Francesco Cusa.
In primis perchè rappresenta un'eccellenza italiana, culturale e musicale tu cur.
Perchè è perosna colta, curiosa, dalle polimorfiche necessità espressive, che nel tempo si sono focalizzate sulla pubblicazione di libri, e di numerosi dischi.
Poi perchè da anni è alla testa di un collettivo come Improvvisatore Involontario che è una delle fornaci più interessanti di contenuti musicali altri. Oltre il fatto che è un laboratorio permanente dove anche le strategie di diffusione e comunicazione sono sottoposte ad analisi ed indirizzate verso direzione che ne garantiscano la maggiore funzionalità. Cosa questa che non è comune a tutte le compagini autorganizzate...Ho ascoltato recentemente il suo disco LOVE.
E mi è venuto da pensare come finalmente in Italia si comincia ad analizzare il ritmo secondo prospettive realmente analitiche e coscienti. Siamo stati un motore della musica da film, soprattutto negli anni in cui il Funk era lo scenario musicale principale di ogni ambientazione. Ma incredibilmente le compagini jazzistiche si sono ancorate ad una interpretazione del tempo e del beat oniricamente anni cinquanta.
Quello che ascolto mi piace, perchè è una contestualizzazione mediterranea della lezione del grande riformatore del ritmo e del suo impiego jazzistico , ovvero Steve Coleman. La mia mente è andata direttamente a quel disco di Coleman che corrisponde al nome di Finctional Arythmias. La formazione simile (hammond al posto del basso nel caso di Cusa) ed un piglio metrico simile getta un ponte su sintesi distanti ma realmente contemporanee. Non a caso il disco di Coleman nasce dopo l'incontro dello stesso con Milford Graves. Come dire che esiste un punto in cui il linguaggio si fa portatore di storia. Anche il più evoluto e volutamente algido si trasforma in una piattaforma di riflessione sul passato e sulle emozioni. E nel disco di Francesco Cusa questo è evidente, al di fuori di ogni necessità stilistica, è un disco di linguaggio italiano oggi. Tecnicamente ineccepibile, e superiore per molti versi a tante delle produzioni contemporanee che vengono da oltre oceano.
Identità nella trasformazione. Sembra essere il motto della musica di Francesco.
Suono meraviglioso, spinto (anche esageratamente nella prima track...) e chiarezza di intenti che tende al cristallino.

Gran lavoro. Che segnala insieme ai lavori di Piero Bittolo Bon, XY quartet, e numerosi altri, come la vitalità nostrana prenda e trasformi in maniera personalissima la lezione del ritmo nella contemporaneità jazzistica.
FINALMENTE
Pubblicato da Marco Colonna

Recensioni "Novelle Crudeli" a cura de L'Indice" - il:2016-01-16

Francesco Cusa, Novelle crudeli. Dall’orrore e dal grottesco quotidiani, ill. di Daniele La Placa, pp. 304, € 14, Eris, Torino 2015
http://www.lindiceonline.com/senza-categoria/narratori-italiani-13/

Cover Novelle crudeli“Guido Pistocchi aveva letto L’Aleph di Borges. E ovviamente si era convinto di aver trovato nella parola “morte” una sorta di quintessenza spirituale, di sigillo, di porta (…) che nell’iterazione ossessiva di un lemma potesse darsi una qualche forma di conoscenza ultraterrena, o comunque estrinsecarsi un barbaglio di mistero”. C’è poco dell’orrore e del grottesco quotidiani in questi racconti, brevi e smisurati al tempo stesso, che sin dal titolo vogliono strizzare l’occhio a Edgar Allan Poe. Tuttavia ciò che conservano del genio americano, a parte i soggetti e la visionarietà febbrile, è un certo maledettismo esasperato (come se un Poe meno acuto e riflessivo si fosse deciso a lasciarsi andare all’assunzione di sostanze psicotrope). Ne vengono fuori storie surreali e fantastiche, i cui personaggi, spesso vittime di loro stessi, delle proprie passioni e della propria ferocia, si muovono disinvoltamente nello spazio del racconto tra vizi assurdi e perversioni. Un campionario di storie di menti alienate, di uomini e donne ritratti nell’istante di accedere al momento estremo di una rivelazione, declinata nella forma radicale della morte e ancor più in quella ripugnante della follia. E il cui riscatto dalla condizione di miseria avviene solo con la parola fine. Ogni forma di oscenità e di orrore preumano sono sondati con una “caratteristica mercuriale”, vivace ed eccessiva, dall’autore. I toni sono infatti quelli dello splatter e di una ironia cinica che serve a distanziare la voce dal racconto. La scrittura è disomogenea per scelta, eppure paradossalmente risiede in essa il gradiente di godibilità del libro. Cusa, che è soprattutto un musicista jazz, ha scelto la forma narrativa, con le sue leggi e i suoi codici, come uno spazio in cui operare una personalissima sperimentazione, un’improvvisazione solitaria e disturbante. Lo stile a tratti baroccheggiante si strema a volte in un lirismo dadaista. I testi diventano così dei pezzi naif e selvaggi, dall’andamento sbilenco e zoppicante, come improvvisazioni musicali, vivi di una scompostezza stilistica che corrode la struttura del racconto o tende il filo della trama senza paura di spezzarlo, o di farlo eccedere. “La mia gola è un’immensa cascata nera di bianco”, ci rassicura l’autore.

Alfredo Nicotra

Recensione Try Trio per Jazzitalia - il:2015-12-20

http://www.jazzitalia.net/recensioni/sphere.asp#.Vna-5oSN4s2

Try Trio
Sphere


Improvvisatore Involontario (2014)

1. Almanacco del giorno dopo (Fazzini, Cusa, Evangelista)
2. Epistrophy (Monk)
3. Storie di rumori e groove (Fazzini, Cusa, Evangelista)
4. B. S. suck my balls! (Fazzini, Cusa, Evangelista)
5. Monk's mood (Monk)
6. Bye-ya (Monk)
7. Usque ad sidera, usque ad inferos (Fazzini, Cusa, Evangelista)
8. Amore e cilindri (Fazzini, Cusa, Evangelista)
9. In Walked Bud (Monk)
10. I Mean You (Monk)

Nicola Fazzini - sax
Gabriele Evangelista - contrabbasso
Francesco Cusa - batteria


Voler confrontarsi con Monk potrebbe a prima vista sembrare presuntuoso, oppure dare adito a giudizi impietosi; Fazzini e colleghi risolvono la questione ideando un approccio originale, sostanzialmente di ricerca, verso l'opera di Monk, e vi affiancano brani originali scritti a sei mani. La struttura del trio - sassofono, contrabbasso, batteria -, riporta all'essenzialità del tratto jazzistico, a nude, morbide armonie la cui rotondità si appaia con la sfera, suggestivamente richiamata sin dalla copertina, e la cui perfezione geometrica si affianca all'equilibrata divisione dei brani: cinque brani del grande Monk, e altrettanti composti dal trio. Ma il titolo è anche un omaggio al Maestro: Sphere era il suo secondo nome.

Come suggerisce anche la bella e colta immagine della terza di copertina - tratta da un manuale d'anatomia di epoca rinascimentale -, il Try Trio guarda all'opera di Thelonious Monk con la volontà di "sezionare" le sue strutture melodiche, per giungere alla loro essenza radicale, esplorando con attenzione quei vuoti che il pianista afroamericano "seminava" nelle sue composizioni.
In apertura d'album la sfuggente Almanacco del giorno dopo, con un lento sax lunare e un dinamico contrabbasso, accompagnati da una sommessa batteria incentrata sulle percussioni appena sfiorate, con un ritmo appena latineggiante. Un brano che spazia su più direzioni, proprio che si lascia aperta più di una strada, proprio come una profezia in attesa di compimento. Nella sua parte centrale, il brano si fa più corposo, diminuiscono le distanze fra gli strumenti, e l'armonia acquista un colore orientale, grazie ai fraseggi di sax. Un brano di jazz atipico, quasi di dance "tattile", xx
Di grande effetto la rilettura di Epistrophy, supportata da una potente batteria che non disdegna rullanti e tom tom, e da una linea di sax più continua dell'originale. Il risultato è un brano più dinamico della versione di Monk, di lunghezza doppia, e dal tempo accelerato. L'idea è quella di attualizzare la lezione monkiana, presentando il suo jazz senza l'accompagnamento del pianoforte (suo strumento d'elezione), e confezionando un raffinato bebop dalla maestosa freddezza siderale: ne è un esempio l'a solo di batteria nel primo terzo di Epistrophy, o il solitario fluire del contrabbasso nella terza parte, anima raminga prima di essere affiancata da una sax meditabondo.

Tutto l'album si regge su accostamenti e suggestioni, su un sax le cui note si posano sui brani come tessere di un mosaico monocolore, e partiture originali (come Amore e cilindri), costruite su eccentrici dialoghi, quasi fra due persone che si voltano le spalle. Un modo per tracciare fra le note la figura un po' scontrosa dello stesso Monk, egocentrico e poco amante delle conversazioni.

Un album interessante, che usa gli spartiti come un unico pennello per dipingere in musica il ritratto in affettuosa caricatura di uno dei più eccentrici personaggi della storia del jazz.

Niccolò Lucarelli per Jazzitalia

PRESS VARIE Raccolte varie del passato. - il:2015-11-21

PRESS: FRANCESCO CUSA "SKRUNCH"

MUSICA JAZZ (mar 2006)
“Un riuscito tentativo di dare un senso a voci patologiche, schizoidi, che si calibrano e bilanciano con una visione parallela, rappresentata con piglio cinico e ironia tagliente. Nel disegno predisposto da Cusa si ascoltano serial killer (interpretati da attori dai nomi assai fittizi) che fomentano la propria follia leggendo Il giovane Holden e l’autobiografia di Frank Zappa. La musica parrebbe perfetta per accompagnare lo stile narrativo dello scrittore afroamericano Ishmael Reed, per l’inventiva, la facilità di trasporre il noir sfumandolo neel grottesco, la capacità letteraria. Se la progettualità non manca mai nelle incisioni del batterista, la musica dei suoi Skrunch deve in qualche modo affiancare queste forti idee trasversali.
Ben vengano le trovate personali (compresa la segreteria del serial killer come ghost track) ma alla fine rimane la musica e Cusa ha riunito esecutori in grado di tradurre bene le sue idee: in particolare Sorge conferma qualità spiccate di solista verace e Cattano ostenta un trombone virtuosistico e inventivo. Entrambi aggiungono qualcosa di proprio e profondo alla riuscita del leader, donando sottigliezze a momenti anche piuttosto aspri.
Federico Scoppio

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IL MANIFESTO (gen 2006)
FRANCESCO CUSA «SKRUNCH»
PSICOPATOLOGIA DEL SERIAL KILLER (Improvvisatore involontario/Wide)
Batterista anti-virtuoso e compositore votato al minimelodramma anti-ottocentesco o, se vogliamo, a una variante attuale del concept album, Cusa riunisce qui intorno al suo strumento e alle sue idee musical-teatrali-letterarie un quintetto con sax tenore, trombone, chitarra e chitarra baritono. Aggiunge quattro voci di attori incaricati di creare a sprazzi un’atmosfera horror o di suspence. Perché si parla (si suona) di serial killer. Il gioco funziona quando le virtù compositive di Cusa, che sono notevoli e si nutrono del jazz dal dopoguerra in poi (con un debole per il free) e di rock «zappiano», sono poste in primo piano per privilegiare la musica, anche se i bravissimi musicisti del gruppo sono troppo spesso tenuti a freno nel corso di lunghi unisoni scritti, peraltro ben fatti. (m.ga.)

INFRATUNES.COM

Membre du furieux trio Switters, le batteur Francesco Cusa n’a pas le temps de retrouver son souffle qu’il s’engouffre en quintette dans l’interprétation de ses propres compositions. Passer de 3 à 5 ne lui suffisant pas, le voici convoquant 4 acteurs à l’élaboration d’un concept album sombre et dérangé : Psicopatologia del serial killer.
Là, au-delà de la noirceur du thème, on impose un jazz hardcore convaincant, servi par les basses de guitares, trombone et saxophone ténor, dont se sont emparés des musiciens psychorigides. Les interventions saccadées accélèrent sans cesse le rythme virulent installé par le batteur, rappelant ici la musique du Gorge Trio (Blatta) ou là la chaleur plus rassurante d’une phrase appuyée de Ken Vandermark (Nonsense).
Telle ambiance délictueuse accueille la voix perdue d’une jeune femme, telle autre le râle des agresseurs. Car Cusa a préféré restreindre le nombre des victimes, et multiplier celui des vicieux. Les gestes ou les phrases, tout répète la prolifération des violences : complaintes assenées à coups d’unisson (Psyco Jogging) ou bas-fond obscurcis encore par les dérives free (Dr. Akagi), dans lesquels se terminent les courses que suggèrent des contrepoints rapides (Buzzati’s Capture).
Haletant, le parcours, qui mène des premiers pas du rôdeur à d’étranges bruits de découpe. Et que Cusa aura révélé au son d’un répertoire fantasque et torturé, oscillant toujours entre jazz et rock exalté, pour, au final, enfoncer plus profond la lame que d’autres que lui avaient laissée dans le corps.Chroniqué par Grisli

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SANDS-ZINE.COM

Francesco Cusa è un eccentrico musicista emerso nel panorama jazzistico indipendente, italiano e non, dal lontano 1986. Le sue origini lo vedono arrivare dalle solari tonalità della Sicilia con un mood che svela dei codici personali dediti con passione alla musica afro-americana, nella sua accezione avant: le timbriche raggiunte nel corso di questo tempo spingono Cusa nelle vicinanze di buona fetta del jazz formulato nella Downtown newyorkese: John Zorn, Tim Berne, Sam Shalabi, Elliot Sharp, qualche nome utile da predisporre accanto le angolature ricercate dal batterista / compositore e co-fondatore del (lo storico) collettivo bolognese Bassesfere.
Dietro le idee che accompagnano la nascita della sigla 'Skrunch' si espone il punto più alto, complesso e libero da ogni formalismo accademico, conseguito sin’ora da Cusa nell’intricato abito indossato da compositore.
Cosa si agita dentro “Psicopatologia Del Serial Killer” è una materia ibrida: un sound molleggiante che unisce con sapienza e buongusto la scrittura arcuata ed elettrica di Tim Berne ed il rock contaminato di Frank Zappa, la veloce struttura noir à la “Spillane” del primo Zorn con il jazz vellutato di Miles ed infine, orna a tratti il ‘tortuoso’ complesso, con un pizzico velato di ponderata esasperazione Jazz-Core (il roboante frastuono terminale di Nonsense, nelle cui cavità bordate noise al basso vengono inferte con perizia chirurgica).
Alla creazione di questo viaggio, avviato verso il calare del millennio scorso, hanno preso parte le chitarre di Carlo Natoli e Paolo Sorge, il sax robusto di Gaetano Santoro, il trombone di Tony Cattano e naturalmente la batteria di Francesco.
La storia elaborata narra le fantomatiche gesta di un serial killer che centra a pieno le proprie vittime leggendo estratti scritti da J.D. Salinger.
E infatti, ecco donare la loro presenza quattro attori diversi con le proprie voci, coinvolte nel recitare a turno i pensieri che frullano e comprimono di nervosismo il cervello ‘malato’ del mostro e le proprie vittime…
L’ambientazione noir del disco evapora in abbondanza ma con facilità si scorge una traiettoria parallela, mirata a convertire battute taglienti e crudeli in spensierati e fulminei attimi di sarcastica e scherzosa ironia.
Oscuri pensieri nascosti nella mente che lentamente prendono vita e, soprattutto, ritmo… jazz.
Un ritmo che si solidifica con l’elettronica nera pece ed introversa di j.d.h., dove una voce recitante rantola nel buio e con fatica riesce a sfuggire dalle strette prese di una lenta e paranoica agonia. In particolare dall’attacco immediatamente successivo di Blatta, diviene stuzzicante denotare il fugace cambio di registro: esplosioni pindariche che contaminano l’atmosfera con scampoli di jazz, una punta di ombroso funky, un’ambientazione surreale ed un montaggio (sonoro) cinematografico.
Dentro tale materia navigano non pochi ricordi che spingono dalla parte dei piemontesi Anatrofobia e nei primi esperimenti avant di Robert Wyatt. Un'altra uscita che conferma la Improvvisatore Involontario tra le impro-label più attente e bizzarre del momento.

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ONDAROCK
Proseguendo nel solco di Sun Ra, Miles Davis, Foetus, Caspar Brotzmann, John Zorn, Mike Patton e, in ultima analisi, Frank Zappa, anche Francesco Cusa - batterista jazz con all'attivo diverse collaborazioni illustri (tra tutti Paolo Fresu, Riccardo Pittau, Tim Berne, Steve Lacy e Flying Luttembachers) - si prodiga in svariati sub-progetti artistici. Siciliano d'origini - guardacaso come Zappa -, a partire dagli inizi degli anni 90 ha dato vita a sonorizzazioni di cortometraggi, film, lavori teatrali, oltre a fondare il collettivo di musica improvvisata Bassesfere, a presiedere la sua attuale label (Improvvisatore Involontario) e a far parte integrante di svariati ensemble jazz.
"Skruch" è uno dei suoi progetti su cui vanta il ruolo di bandleader. L'intento primario di questo quintetto (composto, oltre alla batteria di Cusa, da Carlo Natoli alla chitarra baritona, Paolo Sorge alla chitarra, Gaetano Santoro al sax tenore e Tony Cattano al trombone) è quello di replicare atmosfere noir seguendo il tragitto del jazz d'avanguardia americano degli inizi 80. "Psicopatologia del Serial Killer", il debutto da lui stesso lungamente atteso, raccoglie ampie composizioni di pugno dello stesso Cusa che delineano in forma stabile queste volontà.
Molto spesso, però, il tutto è ridotto a portantina per le evoluzioni acrobatiche del batterista (stilisticamente un incrocio tra Furio Chirico, Damon Che Fitzgerald e Max Roach). Si prenda la fanfara Crimson-iana di fiati e strumenti a corda di "Blatta", allungata per consentire virtuosismi eccessivi, e - più avanti - una figura di note aspre ancora costruita ad hoc per una nuova sortita di batteria e una conclusione sospesa. Oppure in "Dr. Akagi", dove lo strumento s'inasprisce di cambi di tempo Bruford-iani, accelerazioni e stacchi turbinosi, ma dove pure il resto del concertino non resta a guardare: svetta anzitutto il sax Sanders-iano, accompagnato da una figura di derivazione Area, ma poi vi si aggiunge una chitarra da Nels Cline grottesco.
Non mancano pezzi convincenti, in cui Cusa dimostra competenza di leader a tutto campo, all'altezza tanto del tema portante quanto del compito di leader creativo a suo agio con moderate arditezze. Ci sono anzitutto introduzioni di musica concreta e di field recordings, con il compito di guidare l'ascolto, o comunque di settarne il mood (la stessa ouverture dell'opera, "J. D. H.", espone un sinistro sample di sfrigolio ventoso, e una lettura recitata e affannosa). In "Nonsense" è un motivetto carillon con inquietudine ancora accentuata a partire dagli accenti gravi della strumentazione in sordina, dal quale emerge dapprima un articolato tema alla Henry Cow, e quindi una iterata progressione Magma da parte della sezione ritmica. "Psycho Jogging" attacca invece un vociare sommesso a introdurre un lacerto ritmico da Magic Band, a far traghettare in una zona rarefatta con inserti campionati parlati, e in una finale improvvisazione collettiva. L'accoppiata traccia finale/ghost track chiude il disco con nuove bizzarrie di musique concrete.
Dal salingeriano "Il Giovane Holden" e dagli scritti autobiografici di Zappa, che ne hanno infuso tenebrosa ispirazione, Cusa ricava un romanzo in prosa jazz-rock che anela al meglio di due mondi: composizione e improvvisazione. Temi e forme da Ep, cornice da album doppio, pignoleria da poema sinfonico: ciò che ne risulta, più che un concept, è un'altezzosa parabola sonica, la cui sostanza musicale latente non sempre arriva a destinazione. Consiglio dell'autore: "Da ascoltare in una notte buia e tempestosa". Dedicato alla memoria di Bara Nicabaricevic e Alfredo Impullitti.
Recensione di Michele Saran

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FRANCESCO CUSA "Skrunch" ; Cerkno, bar Gabrijel 14
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IZTOK ZUPANKraj: Kranj
Objavljeno: Sob Okt 15, 2005 10:34 pm Naslov sporoc¹ila: FRANCESCO CUSA "Skrunch" ; Cerkno, bar Gabrijel 14

S Francescom se v Sloveniji srec¹amo vsaj enkrat na leto in vedno ga je veselje objeti. Ta mali siciljanec je zadnja tri leta vodil glasbeno delavnico na festivalu Sajeta, kjer so se nas¹i odnosi s¹e poglobili.V arzenalu ima veliko razlic¹nih projektov, npr solo spremljava filma B.Keatona: Sherlock JR, projekt I Negri Volanti, kjer se v triu poigrava s filozofijo, podkrepljeno s slikami, prijekt z dvema DJjema, s katerim je prvic¹ vstopil v nas¹a glasbena us¹esa na jazz festivalu v Cerknem(prvic¹ pod s¹otorom), Body Hammer, kjer z laptop manipulatorjem in baritone kitaristom Carlom Natolijem z norim ritmom ne pusti dihati ...
Zadnji projekt, ki ga je tokrat predstavil v C¹erknem(tako on izgovarja Cerkno) ima zanimiv naslov "Psicopatologia del serial Killer". Povedal mi je, da so priprave nanj trajale pet let. Plos¹c¹a, ki mi jo je dal avgusta, me ni "potegnila", pravo nasprotje pa je bil z¹ivi nastop. V njem je bilo vse, kar si ljubitelj jazza upa pric¹akovati. Kompleksno delo, odlic¹no igranje(vec¹inoma po notah), energija in na koncu koncev, veliko siciljansko srce.
Glasbeniki se po njihovih besedah v Sloveniji poc¹utijo bolje kot doma, Carlo Natoli je odloc¹en, da pride v Ljubljano za nekaj let. Seveda. Bos¹tjan in osebje Gabrijela, kjer bi s¹e posebej omenil fenomenalno kuharico Anc¹ko (dobila je z¹e sloves v mednarodni jazzovski srenji), naredijo bivanje glasbenikov enkratno in ni c¹udno, da se tu ustavijo, kadar le morejo. Ne bom omenjal zneska, ki so ga glasbeniki dobili, z bankovci bi si nas¹e pop zvezde komaj obrisale rit. Naj s¹e predstavim zasedbo:Francesco Cusa - bobni,kompozicija; Carlo Natoli-bariton kitara, laptop; Paolo Sorge - kitara; Tony Cattano - trombon; Gaetano Santoro - tenor sax. Kot se vidi s slik, so bili vsi enotno oblec¹eni v "delovne uniforme", edino Francesco ni mogel brez svoje Superman majice. Ja, fantje so oddelali svojo uro in pol. Na veselje vseh prisotnih.
Francesco in Carlo, nasvidenje na prihodnji Sajeti leta 2006.
http://www.francescocusa.tk/

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ULTRASONICA.IT

Prima uscita per la label Improvvisatore Involontario, già dal nome si può facilmente intuire la rotta di questo bastimento carico di musicisti, improvvisazione e puro amore retrò. La copertina di Psicopatologia Del Serial Killer, appare come un fotogramma di un qualche film Noir, l'unico colore è il rosso (sangue, non poteva essere altrimenti!). Aperto l'artwork, ci troviamo davanti un cd pittato da sembrare un vinile (ecco il retrò), linea grafica che si ripresenterà anche nelle successive produzioni (Switters). Ad aprire l'album, una voce sussurrata che ritroveremo anche più avanti, dialoghi sussurrati, volutamente inquietanti e cattivi (ricordate la voce dell'assassina di profondorosso??), il sound del primo vero e proprio brano, 'Blatta', riporta alla memoria il compianto Frank Zappa ai cui scritti Francesco Cusa si è ispirato (insieme al romanzo Il Giovane Holden di Salinger) per la stesura delle composizioni; otto in tutto, intervallate da sospiriate minacce, carillon e field sound's. Un disco particolare, a metà strada tra composizione ed improvvisazione con brani molto lunghi e ben strutturati, si va dai tre minuti di 'I.D.H.' alla session di oltre sedici minuti di ' Beyond Gods And Devils...The Day Before'. Ottima prima uscita per questa neonata Label nostrana.

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SENTIRE/ASCOLTARE
di Daniele Follero
Francesco Cusa, siciliano di Catania, è la mente che sta dietro al progetto Improvvisatore Involontario: una combinazione di artisti in maggioranza provenienti dagli ambienti jazzistici che, nella ricerca di nuove forme, puntano tutto sull’interdisciplinarietà. Un termine che dà l’idea di accademismo, ma che nella pratica si trasforma in un interessante (anche se un po’ ortodosso) approccio al jazz e al rock.
Laureato al D.A.M.S. di Bologna, Francesco si forma professionalmente come musicista in questa città. Proprio qui entra in contatto con musicisti del calibro di Mirko Sabatini e Cristina Cavalloni, per poi entrare a far parte del collettivo Bassesfere, con cui partecipa al festival Angelica. E’ in quel periodo, una decina d’anni fa, che Cusa comincia a girare l’Europa, suonando con Paolo Fresu, Steve Lacy e Elliot Sharp.
Questo suo exploit in campo jazzistico non gli preclude il rapporto con il mondo del rock, al quale pure si era sentito legato: dagli Zu a Roy Paci , sono svariate le escursioni del batterista quarantenne in questo ambito.
Ma Cusa non si limita a suonare. Molto attento alla letteratura e al teatro (partecipa, tra l’altro, al collettivo letterario Wu Ming) sembra perseguire l’ideale ambizioso della correlazione delle varie espressioni artistiche all’interno della modalità performativa dell’improvvisazione.
Il quintetto Skrunch (oltre a Cusa, autore e batterista: Carlo Natoli alla chitarra baritono, Paolo Sorge alla chitarra elettrica, Tony Cattano al trombone e Gaetano Santoro al sax tenore) di cui è a capo si muove proprio in questa direzione, unendo la recitazione alla musica.
Difficilissimo dare un senso a un lavoro dal titolo Psicopatologia di un serial killer “ispirato liberamente a Il Giovane Holden di Salinger e agli scritti autobiografici di Frank Zappa”, se non attraverso il filtro di un sarcasmo totale e totalizzante. Alle voci di quattro attori (tra cui Saku Ran, famoso attore nipponico proveniente dall’esperienza del teatro No) spetta il compito di esprimere a parole la psicologia del killer attraverso brevi testi recitati, alla musica quello di commentare le parole o creare immagini autonome. Purtroppo non sempre la musica riesce a sublimare il sarcasmo e la grande fantasia creativa delle premesse. La schizofrenia del presunto killer si traduce in un jazz che non rifiuta quasi mai l’organizzazione, che poche volte sfocia nella libertà assoluta o nell’inatteso sorprendente, incanalandosi spesso e volentieri in un jazz-rock a metà tra Bitches Brew di Davis e i primi Soft Machine (Nonsense, Dr. Akagi): riff minimali e assolutamente rockettari introducono fiumi di assolo che superano anche i 15 minuti. E’ in Where’s S. Kubrik che meglio si compie la tensione espressiva di questo disco, con un riff roccioso alla chitarra elettrica e una digressione centrale ai limiti della psichedelia. (7.0/10)Nella seconda uscita della neonata etichetta-progetto (distribuita in Italia dalla Wide), Cusa toglie i panni del leader per accompagnare il sassofonista Gianni Gebbia in trio insieme a Vincenzo Vasi (basso elettrico, voce e theremin).
Switters è il nome del personaggio principale di un recente libro di Tom Robbins: un agente della Cia che ha preso una direzione totalmente autonoma rispetto alla sua missione. Ancora una volta una forte ironia di fondo al limite del surrealismo pone le premesse a un disco molto bello, anche se, anche in questo caso, un po’ ortodosso.
Anche Gebbia è molto noto nei circoli jazzistici italiani (bolognesi in particolare). Lo ricordo per una stupenda performance insieme al batterista Lukas Ligeti (che qui mi viene in mente ascoltando le suggestive sfumature di Langley) durante la scorsa edizione di Angelica. Sassofonista di gran classe, non si abbandona mai al semplice rumorismo o agli estremismi zorniani ricercando in maniera quasi neoclassica un fraseggio molto vicino al largo respiro di Coltrane, senza però risultare antiquato.
Questo disco sembra un vero e proprio omaggio al sassofonista americano, ma forse è proprio questo il rammarico. 17 brevi pezzi che esaltano il suono morbido, arioso e modale del sax di Gebbia, scorrono veloci in un disco che non si discosta quasi mai dai canoni del jazz classico.
L’apporto degli altri due musicisti è importante ma mai determinante nel rapporto con il sax, che prevale praticamente sempre; si fanno comunque notare le fantasie di Cusa e la potenza imponente e sicura del basso di Vasi.
Fa un po’ rabbia dover limitare il proprio giudizio su uno dei più interessanti jazzisti italiani solo perché non ha osato di più. Ma a conti fatti Gebbia suona benissimo e il suo stile è ben riconoscibile (Serov, Mustang Sally Blues), il trio dà l’impressione di essere molto affiatato, ma non fa venire i brividi. Da premio, comunque, la conclusiva Ballata delle multinazionali (andamento sornione e basso funkeggiante) e Salvatore Pagano, uno dei brani in cui meglio viene fuori lo stile più originale ed espressivo di Gebbia, fatto di piccoli sussulti che si trasformano progressivamente in bellissimi fraseggi. (7.0/10)
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PRESS:SWITTERS

UnAMERICAN ACTIVITIES #84
Italian Klezmer
by Ken Waxman
6 March 2006
One of FMB’s main soloists is Sicilian saxophonist Gianni Gebbia, who over the years has made a point of collaborating with advanced American improvisers as well as Europeans. The Anabaptist Loop (Improvvisatore Involontario) features him and the other members of the Switters trio, using different rhythms and sound strategies to produce an aural picture of images inspired by the works of novelist Tom Robbins and Wu-Ming. Klezmer’s mixed secular-religious texts are replaced by post-modern prose strategies....
With unvarying personnel for all its 17 tracks, The Anabaptist Loop highlights the talents of Gebbia, who plays alto and sopranino saxophone plus flute; Vasi—a jazz-rocker, who also works as an engineer—on bass and theremin; and Catania-born drummer FrancescoCusa who has recorded with DJs Max & Fab and as part of the Trinkle Triowithguitarist Paolo Sorge and French tubaist Michel Godard.
He gets even more scope in the freer circumstances of the Switters Trio, and 17 tracks on which to soar. Here echoes of early Ornette Coleman are more apparent in his soloing, especially when the bassist and drummer produce electric beats reminiscent of Prime Time. Vasi’s contrapuntal thwacking and finger-popping helps keep the pulse moving, while Cusa’s percussion patterns incorporate Latin time signatures, folkloric dance suggestions, feather-light brush work, cymbal spinning and slapping, plus the ratcheting and rattling of bells, drum tops, and maracas.
Every so often the simple rhythm takes on Italian horror movie soundtrack mutations with the music interrupted by rhythmic lip smacking, ghoul-like throaty growls and gulps, and spittle-encrusted basso snorts. With Vasi responsible for oscillating theremin pulsations, Cusa producing conga-like resonation from his kit as well as time-keeping, and Gebbia’s outflow ranging from diaphragm vibrations, sexy, double-tongued peeps, and glottal punctuation, the additional vocal color is probably a group effort.

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KATHODIK.IT

Switters 'The Anabaptist Loop'
(Improvvisatore Involontario/Wide 2005)
‘Suoni asimmetrici per una realtà asimmetrica’.
Ecco miei cari signori campeggiare in procinto di inizio recensione lo slogan scritto dal trio Switters, ossia buona fetta del raffinato jet-set improv-jazz peninsulare, composto da Gianni Gebbia al sax e flauto, Francesco Cusa (da poco artefice anche di un’uscita propria, sempre su Improvvisatore Involontario, “Psicopatologia del Serial Killer”) alla batteria e Vincenzo Vasi al basso elettrico, theremin e voce.
Anche questa uscita è interamente prodotta dalla I.I. ed anche questa volta il materiale che si schiude alle nostre orecchie cela una connessione con schemi alquanto complessi. Innanzitutto, andiamo a scoprire che il nome scelto dai tre, Switters, per presentare la loro musica è preso in prestito dal protagonista principale di un romanzo scritto da Tom Robbins, “Fierce Invalids From Hot Climates” (Feroci Invalidi di ritorno da un paese caldo). Ma anche che i titoli scelti per ornare le 17 tracce del cd sono frutto dell’ispirazione rilasciata dalla lettura di altrettanti romanzi che, oltre al già citato manoscritto di Robbins più altri, adocchia piazzarsi tra i libri preferiti dei musicisti due (grandi) romanzi firmati da Wu Ming e Luther Blisset,“Q”e”54”: due spaccati di letteratura che esaminavano con gran maestria episodi accaduti, rispettivamente nel 500 (il primo) e durante tutti gli anni ’50, confacenti al XX° secolo (il secondo).
Da ciò ne deriva, esaminando e sezionando con precisione gli anni in corso dei relativi periodi storiografici, un tipo di rapporto ‘matematico’, dibattuto con maggior chiarezza e approfondimento da Wu Ming 1 che ne firma le note interne al cd.
1/3 di 20 sta a 500 come 50 sta a 20… 6,66:500 = 50 : 20… sproporzioni asimmetriche che fanno in un lampo (ri)salire alla memoria titoli formulati da alcuni padri fondatori della grande AACM: Anthony Braxton e Muhal Richard Abrams…
Sopraggiunti a queste due nomine non rimane che sospingerci ed entrare più specificamente dentro il suono di “The Anabaptist Loop”, dicendo subito che le trame improvvisate dai tre ricamano una simbiosi perfetta tra sonorità jazz, calde e pastose (il rilassante spaccato cocktail-swing ricavato da Cary Grant che sembra rivivere alcune delicatezze alla Bill Evans) e ritmi che costeggiano un sound più metropolitano (e quindi ‘inquinato’ da elementi ‘avant’, quali il fraseggio free di Switters o nel portamento fiacco e spompato dei fiati di Domino).
Improvvisazioni minuziosamente inclinate e aspre (serov), ritmiche elastiche à la Sunny Murray puntellano i ‘destrutturanti’ giochi gutturali emessi dalla voce di Vasi che riecheggiano all’esterno la tecnica polverizzata di un grande Phil Milton (ne sono esempio di ciò l’esame di Confession I e l’aria sbarazzina di Bar Aurora), echi di ‘Trane e Sam Rivers (Mustang Sally Blues), bordate para-funky e originali visioni moderne sulla stregua di Miles (New Midddle Age Walkin’).
Proseguendo avanti il ritmo prende una piega velatamente etnica che traspare dalle morbide percussioni tribaleggianti di Carafa per ridarsi subito dopo ad istanze radicali, come nel breve spaccato (cautamente violento) intitolato Santa Inquisizione e nell’andata minimale posta nella title track. Disincantata è l’aria vissuta in Salvatore Pagano, la quale vede i due sax di Gebbia improvvisare in modo disincantato alla misura del raffinato sax di Cristoph Gallio. Non mancano riferimenti alla situazione politica, economica e sociale che riflette nella lettura di titoli come Ballata delle Multinazionali e Theory Of Conspiracy. Da qualsiasi angolatura lo si osservi “The Anabaptist Loop” non può che apparire come un prodotto intelligente ed innovativo, un disco in cui l’avant jazz italiano compie una gran bella figura e senza molte fatiche sorpassa per classe ed eleganza una buona fetta di circuito improv d’oltreoceano.
Aggiunto: November 19th 2005
Recensore: sergio eletto
Voto:

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SANDS-ZINE.COM

‘Suoni asimmetrici per una realtà asimmetrica’.
Ecco miei cari signori campeggiare in procinto di inizio recensione lo slogan scritto dal trio Switters, ossia buona fetta del raffinato jet-set improv-jazz peninsulare, composto da Gianni Gebbia al sax e flauto, Francesco Cusa (da poco artefice anche di un’uscita propria, sempre su Improvvisatore Involontario, “Psicopatologia del Serial Killer”) alla batteria e Vincenzo Vasi al basso elettrico, theremin e voce.
Anche questa uscita è interamente prodotta dalla I.I. ed anche questa volta il materiale che si schiude alle nostre orecchie cela una connessione con schemi alquanto complessi. Innanzitutto, andiamo a scoprire che il nome scelto dai tre, Switters, per presentare la loro musica è preso in prestito dal protagonista principale di un romanzo scritto da Tom Robbins, “Fierce Invalids From Hot Climates” (Feroci Invalidi di ritorno da un paese caldo). Ma anche che i titoli scelti per ornare le 17 tracce del cd sono frutto dell’ispirazione rilasciata dalla lettura di altrettanti romanzi che, oltre al già citato manoscritto di Robbins più altri, adocchia piazzarsi tra i libri preferiti dei musicisti due (grandi) romanzi firmati da Wu Ming e Luther Blisset,“Q”e”54”: due spaccati di letteratura che esaminavano con gran maestria episodi accaduti, rispettivamente nel 500 (il primo) e durante tutti gli anni ’50, confacenti al XX° secolo (il secondo).
Da ciò ne deriva, esaminando e sezionando con precisione gli anni in corso dei relativi periodi storiografici, un tipo di rapporto ‘matematico’, dibattuto con maggior chiarezza e approfondimento da Wu Ming 1 che ne firma le note interne al cd.
1/3 di 20 sta a 500 come 50 sta a 20… 6,66:500 = 50 : 20… sproporzioni asimmetriche che fanno in un lampo (ri)salire alla memoria titoli formulati da alcuni padri fondatori della grande AACM: Anthony Braxton e Muhal Richard Abrams…
Sopraggiunti a queste due nomine non rimane che sospingerci ed entrare più specificamente dentro il suono di “The Anabaptist Loop”, dicendo subito che le trame improvvisate dai tre ricamano una simbiosi perfetta tra sonorità jazz, calde e pastose (il rilassante spaccato cocktail-swing ricavato da Cary Grant che sembra rivivere alcune delicatezze alla Bill Evans) e ritmi che costeggiano un sound più metropolitano (e quindi ‘inquinato’ da elementi ‘avant’, quali il fraseggio free di Switters o nel portamento fiacco e spompato dei fiati di Domino).
Improvvisazioni minuziosamente inclinate e aspre (serov), ritmiche elastiche à la Sunny Murray puntellano i ‘destrutturanti’ giochi gutturali emessi dalla voce di Vasi che riecheggiano all’esterno la tecnica polverizzata di un grande Phil Milton (ne sono esempio di ciò l’esame di Confession I e l’aria sbarazzina di Bar Aurora), echi di ‘Trane e Sam Rivers (Mustang Sally Blues), bordate para-funky e originali visioni moderne sulla stregua di Miles (New Midddle Age Walkin’).
Proseguendo avanti il ritmo prende una piega velatamente etnica che traspare dalle morbide percussioni tribaleggianti di Carafa per ridarsi subito dopo ad istanze radicali, come nel breve spaccato (cautamente violento) intitolato Santa Inquisizione e nell’andata minimale posta nella title track. Disincantata è l’aria vissuta in Salvatore Pagano, la quale vede i due sax di Gebbia improvvisare in modo disincantato alla misura del raffinato sax di Cristoph Gallio. Non mancano riferimenti alla situazione politica, economica e sociale che riflette nella lettura di titoli come Ballata delle Multinazionali e Theory Of Conspiracy. Da qualsiasi angolatura lo si osservi “The Anabaptist Loop” non può che apparire come un prodotto intelligente ed innovativo, un disco in cui l’avant jazz italiano compie una gran bella figura e senza molte fatiche sorpassa per classe ed eleganza una buona fetta di circuito improv d’oltreoceano.

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INFRATUNES.COM

L’improvisation permet souvent de résoudre le dilemme des références à ménager. Naturellement, leur diversité s’engouffre dans un discours brut, qui tire bientôt parti des contrastes et des combinaisons heureuses. Celles - en ce qui concerne le trio italien Switters - d’un jazz ouvert, d’un rock énergique et d’une soul chaleureuse.
Hommage aux postures instituées par John Zorn ou John Lurie, The Anabaptist Loop impose avec nonchalance la défense d’une musique guidée par les envies : swings chancelant ou décalé (Theory Of Conspiracy, Cary Grant), drum’n’bass allégée (Domino, Q), rock acharné (Theory Of Conspiracy II) ou virant au free (New Middle Age Walking), folklore réincarné (Switters).
Ici ou là, quelques expérimentations : Gianni Gebbia jaugeant les capacités et limites de son saxophone (Langley) ; le bassiste Vincenzo Vasi se soumettant à des prescriptions de bain de bouche à la manière de Phil Minton (Confession) ; Francesco Cusa menant une pièce bruitiste et répétitive qui sacrifie à l’énergie ses bonnes résolutions de ne pas céder à la violence (Santa Inquisizione).
Car la première force de Switters est sa fougue. Repérable partout, adroitement canalisée (Salvatore Pagano) ou laissant échapper une ou deux fautes de goût (Carafa), menant le trio jusqu’à des fulgurances imparables (Serov). Jusqu’à présenter, au final, un brouillon charmant et inextricable de permissions stylistiques flamboyantes. Chroniqué par Grisli
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SENTIRE/ASCOLTARE
di Daniele Follero
Francesco Cusa, siciliano di Catania, è la mente che sta dietro al progetto Improvvisatore Involontario: una combinazione di artisti in maggioranza provenienti dagli ambienti jazzistici che, nella ricerca di nuove forme, puntano tutto sull’interdisciplinarietà. Un termine che dà l’idea di accademismo, ma che nella pratica si trasforma in un interessante (anche se un po’ ortodosso) approccio al jazz e al rock.
Laureato al D.A.M.S. di Bologna, Francesco si forma professionalmente come musicista in questa città. Proprio qui entra in contatto con musicisti del calibro di Mirko Sabatini e Cristina Cavalloni, per poi entrare a far parte del collettivo Bassesfere, con cui partecipa al festival Angelica. E’ in quel periodo, una decina d’anni fa, che Cusa comincia a girare l’Europa, suonando con Paolo Fresu, Steve Lacy e Elliot Sharp.
Questo suo exploit in campo jazzistico non gli preclude il rapporto con il mondo del rock, al quale pure si era sentito legato: dagli Zu a Roy Paci , sono svariate le escursioni del batterista quarantenne in questo ambito.
Ma Cusa non si limita a suonare. Molto attento alla letteratura e al teatro (partecipa, tra l’altro, al collettivo letterario Wu Ming) sembra perseguire l’ideale ambizioso della correlazione delle varie espressioni artistiche all’interno della modalità performativa dell’improvvisazione.
Il quintetto Skrunch (oltre a Cusa, autore e batterista: Carlo Natoli alla chitarra baritono, Paolo Sorge alla chitarra elettrica, Tony Cattano al trombone e Gaetano Santoro al sax tenore) di cui è a capo si muove proprio in questa direzione, unendo la recitazione alla musica.
Difficilissimo dare un senso a un lavoro dal titolo Psicopatologia di un serial killer “ispirato liberamente a Il Giovane Holden di Salinger e agli scritti autobiografici di Frank Zappa”, se non attraverso il filtro di un sarcasmo totale e totalizzante. Alle voci di quattro attori (tra cui Saku Ran, famoso attore nipponico proveniente dall’esperienza del teatro No) spetta il compito di esprimere a parole la psicologia del killer attraverso brevi testi recitati, alla musica quello di commentare le parole o creare immagini autonome. Purtroppo non sempre la musica riesce a sublimare il sarcasmo e la grande fantasia creativa delle premesse. La schizofrenia del presunto killer si traduce in un jazz che non rifiuta quasi mai l’organizzazione, che poche volte sfocia nella libertà assoluta o nell’inatteso sorprendente, incanalandosi spesso e volentieri in un jazz-rock a metà tra Bitches Brew di Davis e i primi Soft Machine (Nonsense, Dr. Akagi): riff minimali e assolutamente rockettari introducono fiumi di assolo che superano anche i 15 minuti. E’ in Where’s S. Kubrik che meglio si compie la tensione espressiva di questo disco, con un riff roccioso alla chitarra elettrica e una digressione centrale ai limiti della psichedelia. (7.0/10)Nella seconda uscita della neonata etichetta-progetto (distribuita in Italia dalla Wide), Cusa toglie i panni del leader per accompagnare il sassofonista Gianni Gebbia in trio insieme a Vincenzo Vasi (basso elettrico, voce e theremin).
Switters è il nome del personaggio principale di un recente libro di Tom Robbins: un agente della Cia che ha preso una direzione totalmente autonoma rispetto alla sua missione. Ancora una volta una forte ironia di fondo al limite del surrealismo pone le premesse a un disco molto bello, anche se, anche in questo caso, un po’ ortodosso.
Anche Gebbia è molto noto nei circoli jazzistici italiani (bolognesi in particolare). Lo ricordo per una stupenda performance insieme al batterista Lukas Ligeti (che qui mi viene in mente ascoltando le suggestive sfumature di Langley) durante la scorsa edizione di Angelica. Sassofonista di gran classe, non si abbandona mai al semplice rumorismo o agli estremismi zorniani ricercando in maniera quasi neoclassica un fraseggio molto vicino al largo respiro di Coltrane, senza però risultare antiquato.
Questo disco sembra un vero e proprio omaggio al sassofonista americano, ma forse è proprio questo il rammarico. 17 brevi pezzi che esaltano il suono morbido, arioso e modale del sax di Gebbia, scorrono veloci in un disco che non si discosta quasi mai dai canoni del jazz classico.
L’apporto degli altri due musicisti è importante ma mai determinante nel rapporto con il sax, che prevale praticamente sempre; si fanno comunque notare le fantasie di Cusa e la potenza imponente e sicura del basso di Vasi.
Fa un po’ rabbia dover limitare il proprio giudizio su uno dei più interessanti jazzisti italiani solo perché non ha osato di più. Ma a conti fatti Gebbia suona benissimo e il suo stile è ben riconoscibile (Serov, Mustang Sally Blues), il trio dà l’impressione di essere molto affiatato, ma non fa venire i brividi. Da premio, comunque, la conclusiva Ballata delle multinazionali (andamento sornione e basso funkeggiante) e Salvatore Pagano, uno dei brani in cui meglio viene fuori lo stile più originale ed espressivo di Gebbia, fatto di piccoli sussulti che si trasformano progressivamente in bellissimi fraseggi. (7.0/10)

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MODISTI. COM
Stripped down, occasionally sprinkled with rock outbursts, the trio proceeds building an experimental language featuring a stark if compressed, driving boiled down rhythm section with asymmetrical rhythms, symmetrical harmonies and driving funk groves reminiscent of contemporary jazz proposals if through an ongoing sense of humour.
Este trío esencial, a veces sazonado con explosiones de rock, se plantea la construcción de un lenguaje experimental con una sección rítmica potente aunque escueta, mínima expresión, con ritmos asimétricos, armonías simétricas y ritmos funk poderosos afines a propuestas del último jazz aunque filtradas por un constante sentido del humor.

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Jazz e parole in maschera per Wu Ming I e Switters


Una serata di pura emozione alla Cuba per le Orestiadi
L´introduzione è breve e secca, giusto per condensare il senso di quello che vuole essere «il primo tentativo di cerimoniale laico» e accennare allo scenario da cui provengono le storie, quell´America di fine anni Sessanta dilaniata dalla morte di Martin LutherKing e dalla febbricitante creatività di un jazz nero che oltrepassava il be bop per tuffarsi nel futuro. Poi, con la stessa immediatezza espressiva che appartiene alla concisione del linguaggio graffitico dei murales, sintesi di enfasi e simbolismo, la
"New Thing" proposta in prima esecuzione assoluta giovedì sera alla Cuba, nell´ambito delle Orestiadi Gibellina Musica, scatta veloce sui ritmi ora dolenti ora concitati ora beffardi del Trio Switters e sul salmodiare della voce narrante di Wu Ming I, fino alla fine protetto dall´anonimato di un passamontagna di seta nera (solo al termine della performance il pubblico rimasto nel
backstage ha potuto riconoscervi Roberto Bui, già esponente del Luther Blissett Project e oggi membro del collettivo letterario bolognese Wu Ming, noto per l´estrema coerenza dell´impegno no global).
Il basso elettrico di Vincenzo Vasi e la batteria di Francesco Cusa, anch´essi inizialmente protetti da mascherine alla Zorro, forniscono un magmatico tappeto elastico su cui rimbalzano, alternativamente, le folate immaginifiche del sax alto di Gianni Gebbia e le declamazioni tratte dalle pagine di "New Thing", racconto siglato Wu Ming che a breve verrà finalmente pubblicato da Einaudi, dopo un lungo braccio di ferro che ha visto capitolare l´editore dinanzi alla risolutezza dei Wu Ming circa la stampa su carta ecologica e l´abolizione del copyright. Dalle storie sanguigne di Ornette Coleman, John Coltrane, Thelonious Monk e degli altri grandi artisti che operarono quella che fino a oggi è rimasta ancora l´ultima rivoluzione del jazz, la voce di Wu Ming I trae frammenti palpitanti che si intrecciano indissolubilmente con i suoni lirici, brucianti e dissonanti dei loro standard, evocati e resi
attualissimi dall´immedesimazione del Trio Switters, mentre dalla campana del sassofono di Gebbia escono note che dapprima sono autentico zucchero filato per poi tramutarsi senza preavviso in spruzzi di acido muriatico. Pura emozione. gigi razete
La Repubblica Palermo, 24 gennaio 2004:


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Intervista a Switters per All About Jazz

Novembre 2004

"La "scommessa" è un po' quella di poter creare una band che, tenendo conto di tutto il serbatoio accumulato in anni di sperimentazione ed improvvisazione, possa avere la possibilità di mettere su quasi delle "instant songs" e delle strutture apparentemente sotto controllo.
...
Stiamo semplicemente applicando random tutti i nostri meccanismi standard, improvvisando continuamente canzoni. Devo dire che mi affascina molto il percorso improvvisativo che facciamo, in particolare il momento che precede quel qualcosa di compiuto, è ormai certo quello che sarà ma è ancora completamente aperto a tutte le influenze del mondo." Switters: una disperata [ma imprevedibile] contemporaneità
Ovvero cosa succede se si lascia che una band si presenti da sé...

Enrico Bettinello
Si tratta di Francesco Cusa alla batteria, di Vincenzo Vasi al basso e al theremin, di Gianni Gebbia ai sassofoni. Musicisti che i lettori di Allaboutjazz dovrebbero avere ormai imparato a conoscere, instancabili promotori di una via "illuminata" e "illuminante" all'improvvisazione, in cui confluiscono tantissime esperienze, dalle più serie alle più facete.
Tra i tanti gruppi di cui fanno parte, con incroci continui e a volte ubriacanti, c'è Switters, che prende il nome da un personaggio dello scrittore Tom Robbins, band che dopo qualche anno di rodaggio dal vivo, approda finalmente al primo, sospirato disco.
Abbiamo avuto la malaugurata idea, pur conoscendo bene con chi avevamo a che fare, di lasciare loro ruota libera nel presentare il progetto e a nulla può valere nessun tentativo di editing! Perché Switters è così, contraddittorio e coinvolgente, pop quando proprio non è il caso, ma al contempo capace di fare riflettere con una beffarda piroetta sonora...
All About Jazz: Com'è nata l'idea di Switters?
Francesco Cusa: Come spesso ci (mi) accade ultimamente, in maniera del tutto casuale (Ma cos'è il caso? Vabbé, per intenderci, preferirei sorvolare circa riferimenti a scuole di pensiero orientali oppure al sovvertimento della teoria della casualità tipica di alcune teorie della fisica moderna... Eppoi stavo per dire, lapsus!, causale. E qui potremmo aprire parentesi su parentesi di introspezione/i psicologiche..). Comunque: è successo che al Cocoricò di Rimini - megadiscoteca presso la quale Vincenzo Vasi imperversa in qualità di assurdo Art Director di musiche improvvisate (pensate all'interno di una delle discoteche più "in" d'Italia!) - ci siamo incontrati per un incontro/scontro d'improvvisazione.
Noi tre, voglio dire, in quanto entità ancora scisse, non transustanziate in "Switters". Ed è lì che ci è "apparso". Che siamo stati "occidentalmente" illuminati.
Vincenzo Vasi: In effetti questo mostro è nato nel mio laboratorio musicale, nascosto in una delle discoteche più "in" d'Italia! dove mi permetto di fare i più arditi esperimenti di carattere umano/musicale, tentando fusioni impossibili, manipolazioni sonore improbabili, cercando di unire musicisti di estrazioni differenti che altrimenti starebbero a casa loro (anche perché questa musica è talmente ignorata dalla maggior parte dei gestori di locali... ). Un luogo, il Cocoricò, che consiglio a prescindere dalla musica a chi voglia effettivamente perdersi in tutti i sensi.
Comunque come succede nella maggior parte degli esperimenti, il trio è nato assolutamente per caso, ma non per caso ci siamo incontrati in sala d'incisione un mese dopo per registrare il nostro primo CD, consapevoli di aver trovato la "via". AAJ: Come avete tentato di trasferire la suggestione narrativa del romanzo di Tom Robbins nella vostra musica?
Gianni Gebbia: Leggendo l'ultimo romanzo di Tom Robbins "Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi" basato sul personaggio di Switters un agente della Cia che, diciamo così, comincia ad "oscillare" ed in generale tutta l'atmosfera del libro è abbastanza profetica riguardo alla situazione contemporanea, al post 11 settembre insomma..... Così ci è sembrato appropriato adottare il nome Switters che suona anche bene e si confà perfettamente al nostro clima surreale.... AAJ: Che influenze e ispirazioni si sono convogliate nell'idea di Switters?
F.C.: Mah! Sicuramente, da un punto di vista estetico-filosofico, è il tentativo di tradurre in musica le velleità, o forse le utopie, dell'uomo santo e crapulone: è l'atteggiamento di chi anela alla "giustizia", al "bene" e va a puttane, di chi si ribella al "potere" occulto e manifesto scoreggiando nelle pause di fronte alla "pay tv", di chi rifugge una visione manichea dell'esistente in quanto "riduzionistica" per poi schierarsi dichiaratamente a favore degli oppressi dal capitalismo, di chi si masturba alla notte davanti ai "trailers" dei video hard ed alla mattina molla uno scapaccione al figlio che non sa allacciarsi la scarpa.
Vedi, comincio a pensare che in questa commistione, in questa promiscuità, possa esservi una sintesi di sacralità intermittente, stregonesca e misera al contempo (Bataille docet!). Tutto ciò, a mio avviso rende la musica di Switters "simpatica", così come lo è il bambino che viene scovato con le dita dentro il barattolo di marmellata e che tenta una autodifesa impossibile. Se vuoi una sorta di rivalutazione della nostra demistificata contemporaneità. Per dirla con Pier Paolo Pasolini: "una disperata contemporaneità", e perciò tanto più eroica.
Aggiungerei anche l'ispirazione dataci dai romanzi "Q" e "54" (di Luther Blisset e Wu Ming) che, non a caso, vedono parecchi dei personaggi dare i titoli a parecchie "track" del CD.
V.V.: Certamente i paradossi della nostra vita di tutti i giorni, che tradotte in un senso prettamente musicale potrebbero essere un genere appiccicato ad un altro assolutamente incompatibile, oppure una rullata di batteria un secondo dopo l'apparente fine di un brano, l'insolito, l'inaspettato, insomma tutto e l'esatto contrario.
Musicalmente influenzati oltre che dal nostro background soprattutto da noi stessi a vicenda. AAJ: Nella tessitura sonica di Switters intervengono molti elementi, dalle percussioni "anomale" di Francesco al theremin di Vincenzo, ad elementi di più evidente teatralità, vi va di raccontarci qualcosa di questo?
F.C.: Innanzitutto siamo dei simpaticoni. Per quanto mi riguarda sono sempre più distaccato dal mio strumento. Anzi dirò di più: trovo la batteria uno strumento "in natura" quasi insopportabile. Ma ancora una volta tutto dipende dall'"uso". In questo senso sono interessato ad una poetica del suono, della ricerca timbrica, se vogliamo "anticonvenzionale" (per quel che oggi può significare). Ma allo stesso tempo rifuggo da quello che io definisco, forse impropriamente, "astrattismo in musica". Mi piace sentir pulsare le musiche, mi piace il ritmo. Di conseguenza mi piacciono i "pattern", gli incastri strutturali (Steve Gadd!!). Forse in questa "schizofrenia" tra ricerca timbrica e sputtanamento del "fill patternizzato" ho finalmente ritrovato il batterista che è in me!
Che dire poi di questi meravigliosi musicisti con cui suono... non ho parole... Penso che Vincenzo possa suonare qualsiasi cosa (dal citofono al theremin) con la stessa "intensità". Gianni poi è uno dei più grandi sassofonisti dell'universo conosciuto, quantomeno del globo terracqueo, Atlantide compresa, isole escluse.
G.G.: Per me la "scommessa" è un po' quella di poter creare una band che, tenendo conto di tutto il serbatoio accumulato in anni di sperimentazione ed improvvisazione, possa avere la possibilità di mettere su quasi delle "instant songs" e delle strutture apparentemente sotto controllo.
Da un punto di vista pratico significa anche poter portare in posti, clubs e luoghi non specialistici delle sonorità e degli approcci derivanti da "altri spazi" per addetti ai lavori, e metterli a confronto con un pubblico più eterogeneo che sia quello di un Cocoricò o di un jazzclub e sembra che la cosa funzioni.
Questo lato "essoterico", ovviamente, non toglie nulla al lato "esoterico", e potrei dire che Switters è una band a vari livelli di lettura che può tranquillamente sottoporsi ai pubblici più vari dal rock al jazz e questo è un fattore per me positivo anche se mi rendo conto che a certe combriccole musicali questo tipo di attitudine verso il pubblico non è gradita. Questa molteplicità dei livelli di lettura è anche la stessa dei romanzi di Robbins, Wu Ming e Luther Blissett che per alcuni lettori possono rappresentare dei semplici romanzi per altri invece dei veri e propri manuali filosofici.
V.V.: Beh, credo che una delle caratteristiche principali sia quella che mi riporta ai giapponesi Altered States, e cioè quella di improvvisare canzoni complete di struttura, armonia, melodia: praticamente truffiamo l'ascoltatore meno attento e documentato, eheheh!
Questo grazie ad una pratica dell'improvvisazione radicale che tutti e tre abbiamo affinato in tanti anni di esperienza ed in particolare per me è l'automatico "idem sentire" che mi lega a Francesco, da sei anni insieme in differenti situazioni (è con Mirko Sabatini il batterista con cui ho più affiatamento), per non parlare di Gianni che già faceva tutto questo quando io ancora suonavo nei miei primi gruppi in riviera.
Stiamo semplicemente applicando random tutti i nostri meccanismi standard, improvvisando continuamente canzoni. Devo dire che mi affascina molto il percorso improvvisativo che facciamo, in particolare il momento che precede quel qualcosa di compiuto, è ormai certo quello che sarà ma è ancora completamente aperto a tutte le influenze del mondo.
È lì che mi trovo a mio agio e molte volte arrivati a questo punto mollo tutto per ricominciare da capo. AAJ: Diteci qualcosa di più sul disco in uscita...
F.C.: Piacerà agli amanti del jazz, di Ornella Vanoni, dei Pizzicato Five, di Fred Bongusto, dell'Art Ensemble of Chicago, di Ennio Morricone, di Cary Grant, di Buster Keaton, del film "Gamera contro il mostro Kaos", di "Otto e mezzo", della sigla di "Attenti a quei due", della Rivolta degli Anabbatisti, del Crodino, (intendo fisicamente) di Carlo Natoli, di Riccardo Pittau, della granita con la brioche e dello sceneggiato tv "Il segno del comando", di Cristina Zavalloni da piccola in "Ha la bua il mio papà!".
Piacerà anche a chi non sopporta i prodotti preconfezionati ma poi li scarta e se li mangia, a chi non sa resistere alla tentazione della Nutella, a chi si ripromette di fare ogni giorno almeno 20 min. di corsa, a chi medita, agli anticonformisti, a chi non sopporta il cetriolo ed il burro d'arachidi. Piacerà a questi qui.
V.V.: Sono d'accordo con Francesco tranne per il Crodino (non mi piace!!) e per Carlo Natoli e Riccardo Pittau (diciamo che fisicamente ho altre mire), in più vado pazzo per il burro d'arachidi, per il resto i miei gusti rientrano perfettamente negli stereotipi sopra elencati e poi debbo confessare di tenere gelosamente nascosto una copia del 45 giri di Cristina Zavalloni da bimba in "Ha la bua il mio papà!" (tutto vero!!).
In più lo vedo come un preludio a possibili e differenti sviluppi strutturalmelodicoritmicotimbrici e vie parallele e trasversali.
È probabilmente il primo episodio di una serie (se solo avessimo registrato tutti i nostri live ne risulterebbero altrettante pubblicazioni) e quindi come tale assolutamente interessante ed illuminante per chi lo ha fatto e per chi lo ascolterà.
Insomma un disco da avere, da collezionare come la figu di "Pizzaballa" della Panini negli anni settanta.
Sicuramente sarà inserito nel catalogo degli introvabili Euronova del 3056, tra il cappello ombrello e il soprammobile del bambino che piscia. Stupite i vostri ospiti!! Comprate Switters!!
G.G.: È un disco molto melodico con momenti più informali inciso in uno stato quasi ipnagogico e rilassato, cosa che lo rende sorprendentemente "morbido e piacevole" ed anche scorrevole e facilmente ascoltabile in più è uno di quei lavori che "raccontano una storia" come dimostrano i titoli.
Questo è il lavoro di presentazione e di esordio della band, un disco estremamente vario e sono sicuro che nelle prossime incisioni avremo modo di scavare a fondo i numerosi registri espressivi che si sono delineati in questo primo lavoro ed anche nei successivi concerti. In questo CD, ad esempio, prevale l'anima jazzistica e quasi uno spirito da song ,negli ultimi concerti invece è apparso in maniera più forte un lato noise che penso svilupperemo. Abbiamo già un concept ben preciso per un paio di incisioni future... ma non voglio ancora dire nulla a proposito. AAJ: Insomma sembra proprio che questo disco uscirà.
F.C.: Il CD uscirà in dicembre/gennaio per l'etichetta dell'Improvvisatore Involontario, entità criptica ed inafferrabile, insieme a quelli del Francesco Cusa "Skrunch" e di Zero Tolerance, ed avrà come titolo "TheAnabaptyst Loop". Si inscrive nel solco della "poetica" wumingiana e tomrobbinsiana, non a caso tutti i titoli dei brani sono ispirati ai libri di Wu Ming e Tom Robbins, ed è allegoricamente il contraltare sonoro ad alcune circostanze legate ai personaggi dei romanzi.
Certo in quanto etichetta vergine, la nostra "Entità" sta lavorando per stabilire la rete di contatti presso distributori in Europa e nel mondo, per cui ancora è presto per informare correttamente gli abitanti del globo terracqueo. Ma comunque non appena saremo pronti comunicheremo nel giro di qualche nanosecondo col Mondo Esterno, anche tramite il sito dell'Improvvisatore Involontario che tra poco sarà on line con delle belle sorpresuccce... AAJ: E il progetto "New Thing" con Wu Ming?
V.V.: Nasce in modo pressoché naturale sviluppando quello che già esisteva a livello di connessioni idealartisticoletteralmusicali tra Switters e il collettivo Wu Ming, e quando il romanzo di Wu Ming 1 era ormai entrato nella fase finale abbiamo lavorato in sinergia producendo questo lavoro che non è altro che la colonna sonora reale del romanzo. Dico reale perchè i brani e le atmosfere sono quelli descritti dall'autore in questo giallo ambientato in una America fine anni Sessanta, che ha come sfondo il mondo del free jazz e del Black Panther Party e dall'altra parte i sistemi di controllo USA condizionati, deviati, della pubblica amministrazione incompetente, folli e altro ancora.... Un bel libro!! Compratelo o fatevelo prestare, oppure fotocopiatelo!!

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PRESS: FRANCESCO CUSA INTERVISTE:

Switters - The Anabaptist Loop
2005 - Improvvisatore Involontario
a cura di: Claudio Tosatto
Ritenete di essere soddisfatti del vostro ultimo cd?
Non si è mai soddisfatti appieno di una seduta di registrazione, nel senso che spesso i tempi sono ristretti e bisogna far tutto di fretta per non gravare sui costi. Detto ciò, direi comunque di sì, nel senso che il rapporto tra le musiche e il progetto di fondo (concept script, relazioni tra elementi musicali ed extramusicali ecc.) mi sembra ottimale.
Da cosa avete tratto ispirazione per il vostro nuovo album?
Come da copertina dagli scritti di Salinger, Frank Zappa, nonché dagli horror di serie Z, dai sequel televisivi tipo Twin Peaks per ciò che concerne Skrunch, mentre per quanto riguarda Switters dagli scritti di Tom Robbins e Wu Ming.
Volete consigliarci qualche altro artista o band che ritenete importante e che ci volete raccomandare?
Tutte quelle di Improvvisatore Involontario!!!eheh.. ( www.improvvisatoreinvolontario.com)
Quali sono i vostri progetti per il futuro della vostra musica?
Sicuramente creare delle subdole melodie ammorbanti, al fine di soggiogare i governi al nostro Verbo. Insomma lo scopo è certamente quello della conquista del pianeta.
C'è qualcosa del vostro nuovo disco che non vi soddisfa pienamente e che ritornando indietro avreste cambiato?
Si, lo risuoneremmo tutto al contrario, o, meglio, non lo faremmo mai più.
Francesco Cusa (Switters)_www.improvvisatoreinvolontario.com

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FRANCESCO CUSA "INTERVISTA A JAZZ CONVENTION"

Un'etichetta, un sito, una comunità.
Si può riassumere in questi tre aspetti la vita di Improvvisatore Involontario. Coagulare intorno a un sito web, intorno alle attività musicali e non solo, le idee e le iniziative di un gruppo di persone che si muovono in modo vario e diversificato nel mondo dell'espressione artistica.
Nasce così l'idea del manifesto dell'Improvvisatore Involontario, cresce, e viene sempre ampliato, un generalistico blog, nel quale si può passare dallo sfottò per la Champions League persa dal Milan a questioni di politica internazionale e di filosofia dell'arte, si sviluppa una sezione grafica del sito che presenta e impatta con le più moderne tecniche informatiche e richiama, nostalgicamente, il vinile e il suono dei dischi a 33 giri. Richiamo che viene portato anche nella grafica e nella confezione dei compact disc editi dall'etichetta. Dal dischetto nero con il titolo nella parte centrale rossa, al digipack utilizzato per la confezione. Colori accesi e grafica molto moderna e netta. Nei dischi viene ripresa la divergente esplosione del blog, con gli interventi di Wu Ming, nelle note di copertina di Switters, nei ringraziamenti che Francesco Cusa appone a Psicopatologia del Serial Killer, nelle s/proporzioni che aprono le note di Wu Ming.
La musica proposta nei due dischi rappresenta una ipotesi avanguardista. Psicopatologia del Serial Killer e The anabaptiste loop si muovono in un ambito di sperimentazione non totalmente libera e spregiudicata: la musica mantiene sempre il contatto con una ritmica che non esplode, ma crea con costanza tempi e linee precise, con la scansione di temi articolati in modo vario e diversificato, ma codificati con precisione. A fianco delle composizioni, c'è l'innesto di strumenti particolari come il theremin, della chitarra baritona, degli attori che impersonano i serial killer e la vittima in Psicopatologia del Serial Killer. In quest'ultimo lavoro si rende ancor più chiaro il richiamo alle atmosfere progressive, applicate alla ragione d'essere generale dell'opera. La particolarità del cast è la presenza di più serial killer e di una sola vittima, quasi a rappresentare la molteplicità delle possibilità di fare del male e l'unicità in definitiva dell'essere vittima.
I riferimenti musicali di queste due esperienze sono molteplici. Da Frank Zappa e Anthony Braxton, richiamati nei ringraziamenti e nelle note che accompagnano i lavori, al lavoro sui suoni che si muove verso il progressive di King Crimson ed Emerson Lake and Palmer, verso le scomposizioni strutturali del free jazz e le ricomposizioni operate dalla fusion e dal jazz-rock.
Ma su tutto aleggia una felice vena di follia che si muove per scompaginare il solito e per mettere in relazione punti disparati di una realtà sociale e artistica non sempre soddisfacenti, non sempre comprensibili. Una leggera vena di folle ironia che cerca di rivoltare il consueto e dare nuove visioni e nuove forme alle proprie espressioni.... con la domanda che chiude il manifesto programmatico del sito, domanda retorica ma intrigante: "E se avessimo ragione?".


Jazz Convention: Quali sono gli spunti di partenza dell'Improvvisatore Involontario?
Francesco Cusa: Beh, sicuramente la lettura del Candide di Voltaire. Non viviamo certo nel migliore dei mondi possibili, quindi bisogna cercare di crearne almeno uno. Diciamo che alla base di tutto sta un rinnovato modello di utopia, quello, ad esempio, in cui queste musiche sono al centro di una crisi di governo con tanto di dimissioni da parte del premier, o piuttosto, meglio, quello di una dittatura illuminata che rendesse obbligatorio il Pasquale Bona (vetusto metodo di solfeggio) ai parlamentari. Come vedi siamo gente concreta e pragmatica che si pone obiettivi concreti e pragmatici.
JC: Le due parole: "improvvisatore" e "involontario".
FC: Le parole dovrebbero condurre il fruitore, attraverso un fitto sottobosco di riverberi, echi ed assonanze, e, senza un motivo reale che ne giustifichi l'azzardo, a materializzare l'immagine di un cameriere in livrea ad un vip party nell'atto dell'incespico. La fotografia dell'istante, in questo ideale affresco, il librarsi del vassoio con le coppe di champagne, il terrore nella faccia della vecchia tardona, la posa plastica dello sventurato, il maldestro tentativo di scanso del rampollo, e così via... rappresenta la quintessenza o l'effimero, celata/o dietro questo binomio di parole. Ciò che a noi interessa, indipendentemente dalle progettualità.
JC: L'idea globale della comunicazione
FC: Va sostituita con una idea lineare, bidimensionale. Non ci fidiamo. Vedi, non crediamo ancora che Tolomeo abbia torto. Continuiamo, almeno noi dell'Improvvisatore Involontario, a darci appuntamenti per la pizza per linee tortuose e sghembe, ma euclidee. Qui si discute di big bang o principio di indeterminazione, ma noi non ci caschiamo! Innanzitutto quel processo a Galileo non ci convince, e poi quel Keplero... La comunicazione globale inibirebbe Bach a tutto vantaggio di Bruce Springsteen, il Machiavelli a favore di Bush; che poi ciò stia poi accadendo, non fa che confermare quanto sopra: se uno corre felice verso l'orizzonte precipita in un baratro immane. Attenzione!
JC: I gruppi e i musicisti che si riuniscono sotto la denominazione e dietro la sigla di Improvvisatore Involontario?
FC: L'elenco sarebbe lungo e tedieremmo gli eventuali lettori. Preferisco rimandare al sito. Si va comunque dall'avant-jazz di Switters, Skrunch, Trinkle Trio, alle contaminazioni elettroniche di Body Hammer, passando per i lavori in solo di Carlo Natoli e per i dj Seth (divinità egizia maligna) di Emiliano Cinquerrui, alle "rockonnections" di Ute Puta e Dog a Dog, alle musiche per large ensemble del mio Naked Musicians, e così via. Non di soli musicisti si tratta comunque. L'obiettivo é quello di allargare le ragioni dell'Improvvisatore Involontario anche ad altri aspetti della sperimentazione artistica: arti visive, danza etc. ma siamo anche aperti a maghi, imbonitori, politici, operatori di borsa, venditori di enciclopedie. Permettimi uno speciale ringraziamento allo splendido lavoro grafico della label e del sito web fatto da Raffaella Piccolo a dalla Core Design, anch'essi parte integrante di Improvvisatore Involontario.
JC: La sintesi, il contatto, tra i lavori canonici e le sperimentazioni dell'Improvvisatore Involontario
FC: Riassumibile col "nulla di nuovo sul fronte occidentale!". Tutto é stato creato, possiamo solo divertirci a riassemblare, dosando diverse cromature senza il rischio di pasticciare. Il rapporto dialettico tra le varie componenti di Improvvisatore Involontario é garantito dalle diverse tipologie dei disturbi mentali degli adepti (guai a definirci associati!). Per esempio, non siamo d'accordo quasi su nulla, e ovviamente ci sarà chi potrebbe obiettare su quanto da me detto finora. Ma questo é il nostro humus, e nel piccolo rappresentiamo una rinascente Sarajevo. Le diverse esperienze di ciascuno, finiscono con l'agglomerare tecniche in gangli d'assurdo. Che c'azzeccherebbe altrimenti un operatore informatico con un diplomato in composizione a Santa Cecilia? Comunque per maggiore chiarezza, invito alla lettura del nostro manifesto.
JC: Due domande sui dischi... Come mai in Psicopatologia c'è una sola vittima e più serial killer?
FC: Sei il primo ad averlo notato! si tratta in realtà di un profondo atto d'amore. In fondo Cikatilo divorava con le vittime sostanzialmente la paura per la fine di un sistema/relazione. Il comunista mangiabambini é la metafora della crisi di un modello educativo, del rapporto maestro/nuovo mondo, della catastrofe capitalistica con l'avvento del dogma della Scelta. L'atto regressivo del serial killer é profondamente conficcato nel mondo della Tragedia. A governare é il Fato, mica il libero arbitrio! Ecco perché in "Psicopatologia del serial Killer" la presunta narrazione finisce con una tragica risata: nulla é domabile, a meno di non domare il domatore (questa é mia, voglio il copyright).
JC: Le ispirazioni letterarie di the Anabapiste loop e di Psicopatologia. Per certi aspetti, un lavoro più di narrazione che di musica.
FC: Si e no. In entrambi i casi, a mio avviso, la parte narrativa é una cornice artificiosa, se vogliamo uno specchietto per le allodole, volto a cogliere in fallo l'ascoltatore. Distraendolo con una finta affabulazione, é magari possibile rincoglionirlo o ammorbarlo sinesteticamente con ciò che magari non comprende ma che afferra e divora comunque. Funziona infatti meglio coi non addetti ai lavori. Sicuramente in Switters non é da sottovalutare la relazione tra i romanzi di Tom Robbins o di Wu Ming e la musica, ma questo metterli in primo piano, paradossalmente ne stravolge la prospettiva, a tutto vantaggio del naso di Gianni Gebbia, o del capello fumé di Vincenzo Vasi. Penso che Wu Ming 1 possa essere d'accordo.
JC: Come mai l'offerta di una e-mail nome@improvvisatoreinvolontario.com?
FC: Per riconsegnare alla nostra lingua morta, l'uso di parole quali "precipitevolissimevolmente". Per ridare alla "fatica" del fare il gusto di ritornare poi alle pratiche dell'ozio e della rinuncia. Il copia e incolla non sfugge comunque alla Legge del Precipitevolissimevolmente.
JC: Per concludere.... e se aveste ragione?
FC: Se non avessimo ragione tu non saresti stato così lungimirante da intervistarci. Sai che non scherziamo ed hai scelto saggiamente di stare dalla parte di chi deterrà il potere nei prossimi trent'anni.
Fabio Ciminiera - Jazz Convention year 2005

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FRANCESCO CUSA “interview for Succo Acido”
“Ascoltare Francesco che parla di sé è come sentire un torrente in piena che trasporta esperienze, progetti e idee, è come trovarsi sotto una pioggia battente fatta di nomi, di città, di tour infiniti, di dischi che sono un Bignami del jazz e dell’avanguardia italiana degli ultimi vent’anni. Ha suonato con Tim Berne, Steve Lacy, Flying Luttenbachers, Giorgio Conte, Kenny Wheeler, Michel Godard e così tanti altri che è quasi impossibile nominarli tutti..” SUCCO ACIDO

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FRANCESCO CUSA “interview for "ALL ABOUT JAZZ" Maggio 2004
"...mi ritengo un tradizionalista più che un innovatore dal punto di vista dello "stile". Parto dal principio che non vi è nulla di "nuovo" da creare al momento, ma semmai da giustapporre. L'alchimia di materiali "ricchi e poveri" [ah ah!] come fuga dalla noia e contro il logorio del creativo moderno. "Nulla di nuovo tutto di nuovo". Certo tutto dipende dall'individuo e di per sé questa prassi non significa nulla, soprattutto in questo pullulare di nuovi talenti, di coppe del jazz e gran premi del bop, tra una spruzzatina di etnico di qua, e una canzoncina di Lucio Battisti di là..."

Francesco Cusa senza rete
Chiacchierata tra il serio [ma molto serio] e il faceto [ma molto faceto] con il musicista siciliano di Enrico Bettinello
Diciamolo subito: Francesco Cusa è un musicista simpaticissimo e la ragione per cui questa chiacchierata si sposta senza alcun ritegno da argomenti seri a considerazioni assai meno serie è il risultato di diversi fattori. Primo fra tutti il destino che ci ha portato più di qualche volta a condividere una cena, un drink, il backstage di un concerto, il discorrere su tanti argomenti. Seconda - ma forse più importante - ragione è che suonare jazz in Italia è comunque un'avventura strana, fatta di tante situazioni contraddittorie, di sfasamenti e accensioni, di amori e disagi, di sentirsi fuori fuoco e poi all'improvviso capire che forse è il proprio posto, di piccoli club scalcinati e di festival sontuosi, insomma fatta di musica!
Batterista e compositore, nato a Catania nel 1966, Cusa si avvicina al jazz intorno al 1986, per poi frequentare ai seminari di Siena Jazz i corsi di Bruno Biriaco, Roberto Gatto ed Ettore Fioravanti, e successivamente laureandosi al DAMS di Bologna e studiando composizione con il compianto Alfredo Impullitti.
Bologna è una città centrale nella carriera di Cusa, dal momento che nel capoluogo emiliano inizia a collaborare con diversi musicisti dell'area [da Fabrizio Puglisi a Stefano De Bonis, da Cristina Zavalloni a Mirko Sabatini], diventando cofondatore del Collettivo Musicale Bassesfere, ensemble impegnato nella produzione, promozione e diffusione della musica improvvisata.
Tanti i progetti portati avanti durante gli ultimi anni, tra cui ricordiamo quelli più recenti come i 66Six, Skrunch, Impasse, Trionacria, Trinkle Trio, Switters, l'Open Quartet di Cristina Zavalloni, ma - come si addice ad ogni bravo "musico" di casa nostra - Cusa ha collaborato negli anni anche con nomi quali Paolo Fresu, Bruno Tommaso, Gianni Gebbia, Butch Morris, Kenny Wheeler, Steve Lacy, Tim Berne, Roy Paci, Elliot Sharp, Flying Luttenbachers, Andy Sheppard, Assif Tsahar...etc. All About Jazz Italia: Parliamo di un progetto che sta avendo molto successo, la sonorizzazione del divertentissimo film di Buster Keaton "Sherlock Jr."
Franceco Cusa: Questo progetto nasce da una grande passione: il cinema. In realtà molto più intrigante per il sottoscritto delle "musiche". Insomma se devo scegliere tra un concerto ed un film, sapete già dove trovarmi (certodipendecheconcerto, certodipendechefilm!). Nasce anche dalla voglia di sonorizzare tutto, e quindi pure Buster Keaton, che rimane ancora sconosciuto ai giovani. In un certo senso è un omaggio, ma è anche una irriverente rivisitazione, che rispetta l'opera più nel "ritmo" e nell'assonanza che nella struttura narrativa. Sembra assurdo ma il risultato potrebbe essere definito "didascalico/dissacrante", che è un contrasto che nel migliore dei casi si risolve nello "straniante/partecipe". Per farla semplice ci si trova contemporaneamente a battere il piede e a essere sbattuti fuori dalla sala. Per questi aspetti è un approccio completamente opposto a quello seguito nella sonorizzazione di "Aurora" di Murnau concepita ed eseguita insieme alla grande musa del nostro tempo canoro: Cristina Zavalloni [per leggere la recensione del disco tratto da quel progetto, Impasse clicca qui], che qui saluto e bacio come sempre!

AAJ: Altro che sbattuti fuori dal cinema, il pubblico sembra apprezzare molto!
F.C.: Sono molto stupito del successo di "Solomovie" [questo è il titolo del progetto, N.d.R.], nel senso che non mi aspettavo una tal risposta da parte di pubblico ed organizzatori. Sicuramente molto è dovuto alla versatilità del progetto, al fatto, non trascurabile, che si tratta pur sempre di un progetto in "solo" e quindi "low cost". Che poi in realtà si tratti di una "performance" (oddio che parola orrenda ormai!) che sembra valicare gli angusti ambiti sonori del "solo"... beh... mi sembra interessante poiché è esattamente ciò che auspicavo in fase progettuale. In effetti mi trovo in splendida compagnia: Keaton, un sacco di attori... orchestre e musiche campionate... siamo pure troppi!!
E poi c'è lui, il Buster, che è fantastico! Non trascurerei neanche il breve corto che, di solito, utilizzo come bis, con un Harry "Snub" Pollard da favola... certo... a volte andare in tour da soli è bello, ma anche difficile. Come questa estate: da Budapest a Travnik (Bosnia) 20 giorni, in Fiat Uno Rossa... battuto il record e foto su Quattroruote! Pensa che a Ferragosto, mentre la gente divorava ghiaccioli in Europa, io mi trovavo con 40 gradi a "sfrecciare" per la Bosnia nel tentativo di battere il record e raggiungere la Slovenia alla sera per un concerto (13 ore!)...gli organizzatori mi hanno accolto con la bandiera a scacchi e lo spumantino!

AAJ: Oltre alle percussioni ci sono anche, come dicevi, musiche campionate...
F.C.: Per quanto riguarda l'aspetto tecnico, mi sembra importante il rapporto armonico che ho stabilito con la macchina. Il rapporto col computer ed il software, dopo anni, mi sembra meno ostico e più naturale. Insomma è divertente scrivere delle musiche e "pasticciare" tutto mentre ti scorrono davanti immagini, rubacchiare anche qua e là, che non fa male e soprattutto gratifica il mio retrogusto truffaldino, come documentato da un'arcana linea della mia sinistra mano, per nulla sfuggita alla certosina interpretazione di un grande veggente palermitano: Gianni Gebbia. E poi è divertente suonarci sopra con la batteria! Almeno per me..
AAJ: Anche Bill Frisell si è dedicato alla sonorizzazione di Keaton...
F.C.: Ho visto una volta, non mi ricordo quando, la sonorizzazione di Bill Frisell e devo dire che non mi ha esaltato alla follia, a parte uno straordinario Joey Baron... ma questa non è una novità, per cui...

AAJ: Ma com'è nato questo amore per la batteria? Da ragazzino?
F.C.: Ho cominciato tardi, a circa diciott'anni. Ero un tremendo metallaro convinto. Dirò la verità, non ero neanche così... "folgorato" dallo strumento. Dopodiché... la follia: ore e ore di studi, seminari, incontri, meeting, il rock, la fusion, il jazz! Insomma una vera e propria illuminazione, o forse sarebbe meglio dire "fulminazione". Bah! Miracoli ed arcani processi della mente umana. Adesso considero la batteria uno strumento insopportabile. Ho un rapporto strano: tutti 'sti piatti, 'ste viti, insomma... monta, smonta... bello quando si va in giro e si trova tutto lì! A volte mi prende però come una "sfregola", un desiderio irrefrenabile di "possesso"... insomma è come un rapporto con un oggetto amato ma soprattutto odiato. Al di là del principio di piacere direbbe qualcuno. Più un mezzo che un fine, insomma. Però a volte che amplessi!

AAJ: Un altro progetto che ti sta molto a cuore è Skrunch...
F.C.: Il progetto F. Cusa "Skrunch" nasce anni addietro ed è la naturale conseguenza del mio precedente "66six". Si tratta di mie composizioni che richiedono lunghi e stressanti tirocini di prove. Adesso sono molto soddisfatto della nuova formula con due chitarre, Paolo Sorge (un tranquillo e potenziale serial killer di provincia che suona la chitarra) e Carlo Natoli (quest'ultimo un cyborg, anzi meglio un replicante. La testimonianza che è tutto vero e che ESSI sono già tra noi. Un uomo privo di cuore e stracolmo di dati e nozioni, ma che garantisce l'affidabilità della macchina...) e poi Tony Cattano al trombone (un nuovo talento che non va da Maria De Filippi ma che andrebbe volentieri con Marta Flavi!) e Gaetano Santoro ai sassofoni (un ragazzo che va sulla trentina ma che in realtà vive una eterna pubertà). Tutti siciliani, come da copione casuale. A volte si aggiunge come special guest il più grande trombettista del Pianeta Plutone, il mitico Riccardo Pittau.
Sono molto contento dell'ultimo CD che abbiamo appena registrato. Si chiamerà "Psicopatologia del Serial Killer". Non so ancora per chi uscirà... ma sicuramente è un prodotto da ascoltare in una notte buia e tempestosa. Scherzi a parte, si tratta di una cornice, o meglio di un "mascheramento", approntato ad arte, allo scopo di veicolare, come in un agguato di briganti, subdolamente, un certo tipo di estetica musicale... aggiungo solo che vi hanno partecipato loschi ed oscuri figuri, noti attori e caratteristi, puttane e giullari... e che vi si respira un'atmosfera terrificante.
Ah! poi fammi ricordare almeno Switters, progetto con Mr."Monolite Sax" Gianni Gebbia e Vincenzo Vasi, un altro grande musicista "assoluto" del nostro tempo relativo. Di recente abbiamo avviato questo sodalizio con lo scrittore Wu Ming 1, per una performance attorno alla "New Thing", con brani di Ayler, Coleman ecc. e stralci del prossimo romanzo...
...e anche il gruppo Zero Tolerance, sempre con Gebbia e due dj, "DjMax" Ferraresi e "DjFab" Gregorio.

AAJ: Quali sono i musicisti che ti interessano di più e che pensi sotto/sopravvalutati?
F.C.: Tra i musicisti che preferisco, annovererei sicuramente Tim Berne, con cui ho avuto la fortuna di fare un concerto... poi chiaramente Joey Baron, Frank Zappa, Burt Bacharach, Franco Battiato, Miles Davis, Fred Bongusto... insomma tanti che non ha quasi senso elencarli! Per quanto riguarda gli italiani, ovviamente, per ragioni di galateo, preferisco parlare di quelli che secondo me sono "sottovalutati", nel senso che non c'è una proporzione tra la loro bravura e l'attenzione da parte di organizzatori e critici... Pronto? Allora, segna: tutti quelli che ho citato prima, a parte Cristina Zavalloni che non mi sembra affatto sottovalutata, Fabrizio Puglisi, Stefano De Bonis, Mirko Sabatini, Alberto Capelli, Domenico Caliri, Edoardo Marraffa, Guglielmo Pagnozzi, il grande attore che saluto affettuosamente Lullo Mosso, Mauro Schiavone, Ruggero Rotolo e... tanti altri che in questo momento sto dimenticando e con cui ho avuto il piacere di suonare e soprattutto di litigare.

AAJ: E così siamo arrivati a parlare del jazz italiano...
F.C.: "Oh Santippe! Il jazz italiano! Innanzitutto per me si scrive così: "gezzitaliano"... cosa vuoi che ti dica... che abbiamo una ottima "scuderia"? Che rombano i motori del nuovo metalinguaggio afroamericano ormai assimilato alla perfezione nell'italico piè? Ma sì! sicuramente ci sono dei bravissimi musicisti in Italia! Ma ci sono anche in Nuova Zelanda! Perché non mi chiedi come va il "gezznuòzelandese"? Lì sì che sono agli antipodi dei nostri campanili!

AAJ: Hai avuto la fortuna/bravura di essere spesso in situazioni stimolanti, ma cosa pensi dell'ambiente del jazz italiano in genere?
F.C.: Qui tocchiamo un punto dolente. L'"ambiente" italiano non mi sembra certo ridente per ciò che concerne un certo tipo di musiche. Tuttavia lo "sport" nazionale è quello di pensare e pronunciare, ovviamente, la fatidica frase: "nessuno mi chiama". Non voglio essere ipocrita, anch'io spesso ho recitato il "Mantra del jazzista sfigato". Soltanto che ad un certo punto mi sono stufato. Considerare, musica, jazz, improvvisazione e progettualità come un "corpus" scisso da un "contesto" e quindi da un insieme di relazioni a me pare assurdo. Nulla prescinde l'individuo e tutto lo trascende. In chiave psicoanalitica, a questa "scissione" e settorializzazione di un "problema", ne sottostà sovente un'altra ben più profonda e radicata che riguarda l'individuo ed il suo mondo relazionale (come ho imparato a mie spese)... (Teoria dei complessi?)...
La falsa interpretazione di una mancanza di appagamento - insoddisfazione che nella sua stragrande maggioranza è inerente a questioni legate alla "professione" più che ad auliche motivazioni di tipo estetico - finisce col generare un senso di frustrazione che, per ovvie ragioni, viene estroiettato verso quelli che paiono essere i "surfisti delle avanguardie", cioè nei confronti di coloro che non affogano ma sopravvivono. Non ha senso abbozzare tentativi di analisi per riferirli autoreferenzialmente ad un sistema a circuito chiuso. Che senso ha parlare di "gezzitaliano" nel paese dei "berlusconidi"? Ben altri sono i problemi a me pare, ed il fatto che, apparentemente, il sottoscritto si occupi di musiche, non mi esime affatto dall'incazzarmi quando il mio "simpatico" sistema viene titillato dai piagnistei da struzzo. Personalmente e fondamentalmente tutta questa roba, il parlare di "musiche per le musiche", mi annoia ed indispone.
Ai miei pochi allievi ripeto: "L'unica regola è che non ci sono regole". Ho il terrore di ogni forma di indottrinamento che non abbia finalità assolutistiche. Non bisogna cedere "all'illusione di Maya", come dice Yogananda (eh eh...).
A tutto ciò preferisco ancora e nonostante tutto le disavventure della nostra Inter e con questo mi contraddico, precipito in bocca a Tolomeo, mi illudo di trascendente, indosso i panni del bopper e spero di vincere il prossimo Top Jazz...
P.S. Scusa il linguaggio criptico, ma non c'è miglior Loggia della benemerita "Loggia dei Jazzisti". Per questi meandri e sottoboschi vigono codici che in confronto "La Stele di Rosetta" è un cruciverba facilitato!

AAJ: Una cosa che ho riscontrato parlando con te e con altri musicisti. è la possibilità di vedere l'arte e la musica attraverso una grande varietà di angolazioni, di riferimenti, di discorsi, mentre altre volte capita di dialogare con altri bravi jazzisti ma sembra davvero difficile uscire da una dialettica autoreferenziale "ho fatto questo, ho fatto quello" o mitologica "Chet quella volta, Miles di qua... blabla", tanto che spesso penso ci siano fondamentalmente degli equivoci sullo stesso ruolo del musicista nello spazio/tempo...
F.C.: Per forza! Ritorniamo a quanto detto prima. Il "jazzista medio italo/europeo", nuovo ceppo razziale nato intorno alla metà degli anni sessanta, vive in un universo tolemaico. Il suo universo di riferimento è chiuso, schiacciato da divinità afroamericane (vedi Parker, Davis ecc.) che spesso vengono vissute come un "tabù". Il suo immaginario può spingersi fino alle colonne d'Ercole, non oltre, pena l'accusa di eresia. Ho conosciuto pianisti che hanno smesso di suonare "perché tanto non sarò mai come Bill Evans"! Insomma, essendo precluse le "nuove scoperte", per non rischiare d'essere precipitati in un inferno luciferino, ecco rifiorire le nuove "bucoliche", le rinnovate arcadie, dove al posto dei satiri stanno dei compiacenti "Loa" ed al posto delle ninfee magari un paterno Mingus dallo sguardo compiacente. Un quadretto rassicurante non ti pare? Ovviamente, a chi rimane un po' di buon gusto non resta che di augurarsi quantomeno un remake del "Ritorno dei Morti Viventi" con gli zombie di Miles, Mingus e compagnia bella muniti di falce...
Per non offendere nessuno, ribadisco che tutto ciò è presente in ognuno di noi, anche se in dosi omeopaticamente diverse. Per me forse, suonare standards è una delle forme di psicoterapia più efficaci. Mi diverto un sacco! Sono di una coerenza nella contraddizione da fare invidia ad un asburgico! Il musicista, l'artista, non è solo un essere umano. Egli (non ridere) ha un unico compito: quello di creare modelli utopistici, e quindi irraggiungibili. Ha il dovere di rimodellare continuamente il proprio universo creativo ogni volta che le "conquiste delle scienze" sembrano postulare nuove illusioni di traguardo. Ha il dovere di mettersi con la bandiera a scacchi sempre un po' più in là. Insomma, ha l'obbligo di congedarsi cordialmente dal suo gemello/collega/inconscio, per poi spararlo nello spazio alla velocità della luce e sperare che in circa 6 minuti possa fare quello che lui non potrà fare nell'arco di una vita. Superando le "forme" in qualche modo. Ecco, dovrebbe essere questo il ruolo del musicista nello spazio/tempo!
Diceva Claes Oldenburg che "l'offerta di una duplice visione a favore e contro la cultura americana [ma leggasi pure pop/italica/quellochetipare], la cosiddetta pop art, incarna e al tempo stesso deride gli stereotipi del consumismo moderno", una sorta di affermazione/negazione di una identità, ma anche un meraviglioso punto di partenza per riflettere sui rapporti con i materiali, alti e bassi che siano... Fred Bongusto e Max Roach...
Condivido appieno. Da un certo punto di vista viviamo un'epoca terribile e meravigliosa. Il "gianobifrontismo" attraversa ogni forma percettiva dell'essere, cioè del comunicare. Crollati miti, divinità e santi ecco rinascerne degli altri sotto differenti spoglie. Non si offrono solo dei voti a "Silvio", bisogna "credere" in Esso.
Per ritornare a noi, ad esempio, io mi ritengo un tradizionalista più che un innovatore dal punto di vista dello "stile". Parto dal principio che non vi è nulla di "nuovo" da creare al momento, ma semmai da giustapporre. L'alchimia di materiali "ricchi e poveri" [ah ah!] come fuga dalla noia e contro il logorio del creativo moderno. "Nulla di nuovo tutto di nuovo". Certo tutto dipende dall'individuo e di per sé questa prassi non significa nulla, soprattutto in questo pullulare di nuovi talenti, di coppe del jazz e gran premi del bop, tra una spruzzatina di etnico di qua, e una canzoncina di Lucio Battisti di là...

AAJ: Progetti per il futuro prossimo e ultimi sassolini nella scarpa...
F.C.: Riguardo ai progetti futuri... mah! Innanzitutto mi augurerei una buona produzione discografica per i miei ultimi lavori: e cioè "Skrunch" Psicopatologia del Serial Killer, Switters e Zero Tolerance. Lasciami dire che questo è il problema più annoso che attanaglia un musicista come il sottoscritto. Il problema non è, ovviamente, il farsi venire delle idee, quanto il realizzarle. In parole povere o si hanno dei soldi da investire in produzioni oppure diventi Mandrake...
La "pochezza" del nostro beneamato Paese sta tutta qui. Il provincialismo è un morbo che uccide. Le cose funzionano solo al MAIUSCOLO. Siamo bravissimi a coniare definizioni (tipo "gezzitaliano"), a nutrirci di concorsi ("chè 'mme voti ar Toppe Gèzz?")... siamo la fucina dei "nuovi talenti". Questo non è più il paese di San Remo bensì di "Saranno Famosi". Tutto è "defilippizzato". Se Maria De Filippi dichiarasse simpatie per la sinistra, anche mia zia si convincerebbe, e Berlusconi andrebbe a casa, e francamente, ciò forse è ancora più triste. Tutto è sensazionalismo. Non c'è uno straccio di finanziamento per le arti. Il musicista è ancora tristemente un soggetto sfocato nel panorama, ed è in balia del concetto di "eccezionalità"; è costretto insomma a destare stupore, pena la maledizione. Guarda, sono costretto a dire la cosa più insopportabile per me: e cioè che o sei nell'insostenibile mood del "Gezzitaliano", con quelle sonorità che "fanno male" alla bocca dello stomaco, con quei pezzi che magari si chiamano "Tuareg" oppure "Appuntamento nella Tuscolana" e che poi sono delle canzoni bop tipo AABA, con quel "gusto" e quella "attitudine" da smandolinata, oppure sei ridicolmente e stupidamente "OFF". Anche se fai un milione di concerti l'anno. Sei "OFF".
Ma ci rendiamo conto che tutto questo è ridicolo? Proprio l'essere costretti ad usare un termine vetusto e corroso come "OFF"?! Triste ma purtroppo vero (l'autocompiacimento del sentirsi "OFF" è forse male peggiore del far parte delle "Scuderie del Gezzitaliano"). Ma possibile che non si possa "onestamente" essere musicisti? Avere il giusto riconoscimento da parte di uno Stato che "giustamente riconosce" al musicista la dignità di poter "essere", di non trasformarsi in un patetico lecchino pronto a prostituirsi?
Ma è mai possibile che tutto sia in mano al "mood" di qualche discografico visionario, o giornalista creativo, od organizzatore ricettivo? È mai possibile che uno non possa starsene a casa a studiare o comporre percependo il "giusto"? Utopie? No, se accade in Francia.
Ecco, il mio progetto per il futuro, è forse quello di "attentare" con tutti i mezzi e le risorse sovraumanamente possibili (che è poi quello che stiamo cercando di fare con l'Improvvisatore Involontario, entità dissociativa e setta fruibile, nonché marchio esportabile), a questo mondo del "gezzitaliano" congestionato. Colpirlo a morte nel tentativo di ridare vita, più che ad un genere, ad un atteggiamento estetico, ad una prassi dell'improvvisare e del creare che niente hanno a che vedere con la patina di edulcorazione predominante. Trasformare il "gusto" dominante è dovere non soltanto del sottoscritto, ma di ogni essere senziente che abbia ancora il coraggio di indignarsi. Per cui, forza!, sostituiamo quella maledetta "G" con una nuova "J"... in fin dei conti è sempre la stessa lotta tra "matusa" e " 'ggiovani"... è sempre un problema di "Super Giovane", per parafrasare Elio e le Storie Tese... solo e sempre un problema di intelligenza vs. stupidità. Ora e sempre, nei secoli dei secoli. Amen.

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PRESS: FRANCESCO CUSA & CRISTINA ZAVALLONI "IMPASSE":

“New original soundtrack for Aurora by F.W. Murnau”:
“Impresa non di poco conto quella di "descrivere" le immagini di una pellicola d'altri tempi come Aurora il capolavoro di F.W.Murnau del 1927. Considerato lo stato culturale in cui versa il nostro paese, é quantomeno doveroso lodare gli intenti di chi, molto coraggiosamente, lavora al consolidamento di queste particolari forme espressive.Trasposte in musica le immagini di questo film muto appaiono pertanto esaltanti, valutate sia per l'impatto emotivo che artistico verso cui la visione ci indirizza… Quello che comunque lascia più sorpresi è la versatilità con cui questi artisti danno espressione alle proprie capacità creative…” ALL ABOUT JAZZ


“..ce disque ne souffre à aucun moment d’ennui tout en conservant une ligne directrice pertinente…” IMPROJAZZ


“…l’appuntamento ha assolutamente meritato lo scroscio di applausi con cui il pubblico ha salutato il lieto fine del “dramma d’amore”…il grande merito che va tributato ad Impasse riguardo a questa colonna sonora così impegnativa del resto è proprio l’aver saputo giocare fino in fondo con la contaminazione…” IL TIRRENO


“…L’ascolto del cd non lascia indifferenti: elegiaco, pastorale, soffice, festoso e, di contro, arcigno, suburbano, stridente, grottesco, tracimante, dinoccolato, sono alcuni degli aggettivi che suggerisce. Tutt’altro che consolatorio o pedissequo, esso richiede – ma nel contempo sa istigare – un’attenzione costante, rivelandosi alla fine esperienza quasi terapeutica, liberatoria e onnicomprensiva (e come tale da effettuare preferibilmente d’un fiato), soprattutto per il gusto della sorpresa e della scoperta) a getto continuo.” MUSICA JAZZ

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PRESS: FRANCESCO CUSA”IMPASSE” …su J. Prévert


“…Jacques Prévert wird lebendig, doch nicht durch Widerbelebungsmassnahmen, sondern durch die Empfindungen einiger begeisterter junger Leute aus Italien, die genugend kunstlerische Souveranitat einbringen, um dem alten Mann aus Paris und einigen seiner schonsten Texte jetztzeitige Virulenz einzuhauchen…” JAZZPODIUM


“…nella lettura di Cusa e dei suoi amici l’intreccio poesia-canzone è stretto fino all’identificazione, e dunque canto e recitazione si fondono in un disegno complessivo che comporta sovrapposizioni, deformazioni e altri accorgimenti tecnici…” MUSICA JAZZ
“..Un planteamiento recitativo que tiene deudas evidentes con fragmentos musicales concretos como ocurre en la primera pieza con EL LABORINTUS de Luciano Berio…”
HURLY BURLY

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PRESS TRIONACRIA:
“Trionacria manifesta una interessante e godibile capacità di improvvisazione di gruppo che si traduce però, grazie all’affiatamento dei tre, nella creazione istantanea di forme definite…l’originalità del trio si deve fra l’altro anche al ruolo paritario che vi riveste la batteria: Cusa è molto abile nell’evitare una funzione di accompagnamento giocata sullo swing o sull’improvvisazione free…” IL MANIFESTO


“Dies gilt auch für die Musik des Trios, in dem neben der virtuosen circulaten Improvisationstechnik von Gebbia der Trompeter Roy Paci und der komplexe Polyphonist Francesco Cusa auf dem Schlagzeug auftreten werden.
Einige der Kritiker haben einen direkten Vergleich mit dem Projekt John Zorn – Dave Douglas gezogen.” Rumore


“La "musica" non è fatta solo da canzoni di 3 minuti con strofa, ritornello e ponte. Se non ne siete convinti, provate ad ascoltare il Trionacria. Sinceramente non so definire la loro musica, l'unica cosa che posso dire con certezza è che sono Francesco Cusa alla batteria, Roy Paci alla tromba e Gianni Gebbia al sax. Formazione sicuramente atipica, come la musica che propongono: una totale improvvisazione, ma sempre di un altissimo livello tecnico..”Cupa Cupa


“…quello che ci si attende mentre scorrono i secondi di The Mystic Revelation è quali magie sapranno inventare a turno i singoli musicisti…“ ALL ABOUT JAZZ


“…evitando le soluzioni più ovvie, Francesco Cusa cerca costantemente con il proprio drumming di entrare nell’interplay con un proprio discorso compiuto e fluido. E in questo intelligente sforzo del batterista catanese il trio trova uno dei motivi di maggiore originalità e godibilità…” MUSICA JAZZ


“Mélange habile de jazz et de groove. Une musique à la rythmique infernale et aux envolées de cuivres cinglantes. Ce trio est une véritable locomotive ! “
Festival de Rive de Gere


“Trionacria bietet Freejazz und freie Improvisation auf einem hohen Energielevel.”
AKUT, Internationales Festival


“..Si parte con il trio Trionacria, Gianni Gebbia ai sax(s), Francesco Cusa alla batteria e Roy Paci allla tromba.
I tre sfidano i presenti creando suoni, le chiavi del sax e i pistoni della tromba si inseguono, sono roventi. Stiamo viaggiando insieme alle loro scomposizioni melodiche, quella musica che non vuole e non puo' essere definita. Va ascoltata, e basta. Ulteriore merito dei musicisti e' stato quello di creare un grande coinvolgimento in uno spazio cosi' grande, insolito per concerti di questo tipo.
A seguire i Reevoluto, con un set onesto, ma poco seguito (suonare dopo i Trionacria non e' facile...). L’Erroneo, Il Fallace


at “North Sea Jazz Fest”
From a Dutch paper:
'In the same room three hours later Italian Trionacria -trumpeter Roy Paci, saxophonist Gianni Gebbia and Han Bennink-like Francesco Cusa on drums- played a magnificent improvisational
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PRESS FRANCESCO CUSA "66six":

“This group produces some incredibly smart and unusually interesting music. The textures that emanate are captivating. Polyrhythmic content is not spare. A couple of the pieces are structured like a symphony where there are distinct movements and appropriate dynamics. The instrumentation borders on a richness that is too good to be called experimental.” JAZZREWIEW


“…Cusa ha proposto una composizione molto spaziata, ariosa, agile nel muoversi con un’uso articolato dell’organico fra suggestioni musicali diverse (dal rock-jazz ad esperienze orchestrali contemporanee), ben costruita e con una bella ricerca di suoni…”
IL MANIFESTO
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PRESS MLUK:
“..Abile il batterista Francesco Cusa che non si è lasciato fagocitare dalla tentazione di raddoppiare il ritmo, arricchendone la trama con i piatti, variazioni timbriche con ogni pezzo del suo strumento e infilando sottili figure in stile funk.. Un concerto più che riuscito, che fa attendere con ansia l'uscita del disco prevista entro l'anno. Una musica autentica e pura, destinata a curare e stimolare l'emozione in favore della creatività. Sarà stato l'effetto della trance, ma il pubblico se ne è accorto, dato che neanche il lungo bis è bastato a saziarli. ” ALL ABOUT JAZZ

MLUK: vortici sonori e colori musicali
di Valentino Curti
(marzo 2006)


14/03/06
Maison Musique: via Rosta 23, Rivoli (To)


Ieri sera sono andato a vedere con il mio amico Diego un concerto atipico
per il panorama musicale italiano: un progetto musicale di jazz etnico. Il
locale era semivuoto con un pubblico di 32 persone∑ il parapiglia
Berlusca-Prodi ha vinto sulla creatività, ieri sera∑ma per i pochi che
hanno assistito all‚evento hanno vinto le orecchie, o meglio ha vinto
tutto il corpo in festa! I MLUK sono un gruppo di quattro elementi, la cui
descrizione tecnico-musicale lascio al sito di Musica 90 che ha
organizzato l‚evento per le Olimpiadi della Cultura:
«MLUK nasce dall‚incontro tra jazz e la musica gnawa del Marocco, grazie
alla presenza del cantore e percussionista Mohammed El Badawi della
confraternita Sidi Mimoun di Marrakech. Attorno alle melodie e le nenie di
El-Badawi, MLUK crea un‚atmosfera complessa mista di trance, free jazz
anni ‚60 e grooves ballabili.
Accanto a lui tre rinomati giovani jazzisti siciliani. Gianni Gebbia, nato
a Palermo nel 1961, uno dei primi esploratori italiani dell‚etno jazz. Ha
studiato il sax da autodidatta, suonando con numerose formazioni.
Dall‚esperienza sul versante della musica creativa improvvisata, ha poi
collaborato anche con gruppi influenzati dal pop progressive. E‚ stato
direttore artistico di Palermo in scena e del festival Curve Minore ˆ
pratiche inusuali del fare musica.
Al contrabbasso Fred Casadei. Nato a Roma nel 1970, ha vissuto per un
lungo periodo a Siracusa ma ormai torinese d‚adozione. Ha fatto parte di
numerosi ensemble diretti dal polistrumentista Stefano Maltese con il
quale ha inciso numerosi dischi. Ha collaborato, inoltre, con Roy Paci al
progetto di cover rock steady dal titolo Aretuska pubblicato dalla Virgin.
Ha fatto parte dei Mau Mau con i quali ha compiuto numerosi tour.
Attualmente collabora con Teresa De Sio.
Alla batteria Francesco Cusa. Batterista e compositore, nato a Catania nel
1966, ha avuto il suo primo approccio con il jazz intorno al 1986. Ha
studiato a Siena e al Dams di Bologna. Nel ‚94 incide per la YVP il cd
T.A.O. Amaremandorle, gruppo con il quale svolge un‚intensa attività
concertistica in Italia e in Germania. Nello stesso anno incide per la
Caicai il cd Suite n. 1 per quintetto doppio dello Specchio Ensamble, un
gruppo manifesto del collettivo Bassesfere con il quale, si esibisce ad
Angelica, a Berlino e ad Amsterdam. Dal ‚94 ha alternato l‚attività di
musicista a quella di docente di musica d‚insieme presso il Centro
Giovanile „Antonio De Curtis‰ e di batteria presso la „Scuola Ricordi‰ di
Bologna. Dal 2002 insegna musica d‚insieme, presso il Centro Culturale Zo
di Catania.» [1]
Come nelle parole sopra citate, il quartetto fa un genere in cui il jazz
esprime tutta la sua capacità di sintesi e di contaminazione con la
tradizione musicale africana. Il genere infatti è nato dagli africani
deportati in America, esattamente come il blues: musica di protesta,
musica di contemplazione, musica di ribellione, musica di cambiamento. Il
jazz dei MLUK è un jazz energico, potente, radicale nelle sonorità che
richiamano la terra e le sue energie. Gli strumenti predominanti sono
infatti le percussioni: abbiamo quelle etniche di Mohammed El Badawi, e
la batteria di Francesco Cusa; la potenza ritmica del gruppo è anche
scandita dal contrabbasso di Fred Casadei, che suonava potente la base
sui cui la voce di Mohammed El Badawi e il sax di Gianni Gebbia [2]
coloravano la musica e la impreziosivano con suoni suadenti e fantasiosi.
Erano coinvolgenti le nenie che circolavano nell‚aria ipnotizzando
l‚ascoltatore, che si perdeva nel seguirle insieme alle curve armoniose
dei suoni di Gebbia. Queste ritmiche e queste fantasie di suoni
permettevano alla mente di staccarsi dai suoi schemi quotidiani, per
perdersi essi, che quasi fluidi scorrevano e attenuavano la percezione
del tempo oggettivo, per immergerci nello squisito tempo soggettivo,
tempo interiore: sospensione e fluttuazione. Le ritmiche potenti
rendevano l‚ascoltatore preda delle proprie emozioni più animali e
concrete, suoni non fini ma appunto „radicali‰ nel connettere il singolo
alla terra e alle sue energie di danza e di espressione in gesti, canti,
mani che battono, piedi che tengono il tempo. Si tratta di una musica che
„mette i piedi per terra‰, e che li fa muovere, agitare, divertire∑ si è
„dentro‰ il corpo, dentro alle sue sensazioni. È una musica che fa
prendere coscienza del corpo, lo si sente vibrare, risuonare, re-agire
alle stimolazioni potenti dei suoni bassi, che agiscono irrompendo
nell‚ascoltatore. I canti echeggiavano nella sala, e sapevano di
„lontano‰, creavano un cerchio, un dialogo con i suoni prodotti, erano
una danza che, come un vortice, inghiottiva gli ascoltatori, coinvolti
nel ri-suonare. Tutte le musiche ossessive creano „gruppo‰, aggregano i
corpi, catalizzano le coscienze facendo viaggiare la mente lineare sempre
nello stesso modo, che è circolare, ed è in quel moto che la parte
razionale si stacca: è in standby, lascia vivere la nostra parte più
ricettiva e ampia, che „non giudica‰, ma semplicemente accoglie
l‚esperienza-concerto, vive i suoni, e così non pensa in modo frenetico.
Al concerto eravamo tranquilli, rilassati mentalmente, mentre il corpo
riscopriva uno spazio d‚azione in cui i suoni agivano sciogliendo i
muscoli e addolcendoli. Una base musicale così piena di forza energetica
imponente occupava lo spazio, lo si sentiva denso e pieno; da quel
„pienone‰ energetico sgusciava fluido e flessuoso il sax, che vorticava
libero in armonie colorate e imprevedibili. I suoni di Gebbia scivolavano
nell‚aria muovendosi su itinerari imprevisti, senza regole, davano l‚idea
di libertà, di fantasia: si tratta di una musica che tracciava itinerari
curvilinei che, se seguiti, portavano l‚ascoltatore dentro di sé, nel
proprio spazio-tempo sospeso e tranquillo. In questo „viaggio‰ il sax
guidava l‚orecchio deliziandolo, mentre l‚imbarcazione andava a „motori
spianati‰ con un contrabbasso, una batteria e un tamburo da „400
cavalli‰! La via qui esplorata è quella dinamica, che sprigiona energie
radicali che smuovono dentro in modo dirompente, mischiata ad una via più
delicata che è libera di esprimersi grazie al denso substrato sonoro
delle percussioni: nell‚intersezione tra le due strade sta l‚ascoltatore,
con l‚orecchio teso a cogliere i propri movimenti interiori.Gnawa: schiavi, rituali e vortici sonori
Grossa parte della coloritura sonora del gruppo la faceva la voce, il
tamburo e le qarqaba di Mohammed El Badawi (in abiti tradizionali), che
nella loro ossessività disconnettevano dai ritmi del quotidiano e
connettevano con l‚interiorità. Le qarqaba sono strumenti ritmici
(idiofoni) molto utilizzati nell'accompagnamento delle danze, e sono fatti
generalmente di ferro, forgiato o grezzo: ricordano vagamente le nacchere
spagnole. La loro forma è a 8, con quattro crotali sovrapposti a due a due
[3]. Il tamburo era di grandi dimensioni e Mohammed El Badawi lo teneva a
tracolla mentre lo percuoteva con una bacchetta ricurva e una diritta.
«I Gnawa del Marocco sono i discendenti degli schiavi neri deportati dai
paesi dell'Africa occidentale subsahariana (Mauritania, Senegal, Mali,
Niger, Guinea). In Marocco le loro pratiche ancestrali hanno subito
l'influsso del tasawwuf (sufismo, esoterismo islamico), portando alla
costituzione di una tariqa (confraternita, via mistica) che ha come
patrono il marabut Sidi Bilal, Compagno del Profeta e primo muezzin
dell'Islam.
Musicisti e danzatori, i Gnawa praticano una complessa liturgia
coreutico-musicale (lila, derdebà), che riattualizza il sacrificio
primordiale e la genesi dell'universo attraverso l'evocazione delle sette
principali manifestazioni dell'attività demiurgica divina, i sette mlùk,
rappresentati da sette colori, scomposizione prismatica della luce-energia
originaria.
I mlùk sono evocati da sette "divise musicali", sette cellule
melodico-ritmiche (um), ognuna delle quali, ripetuta e variata, dà origine
a una delle sette suites che costituiscono il repertorio
coreutico-musicale del rituale dei Gnawa. Nel corso di queste sette suites
sono bruciati sette diversi tipi di incenso e i danzatori sono ricoperti
da veli di sette colori differenti.
Ognuno dei sette mlùk è accompagnato da un seguito di "personaggi",
identificabili dalla musica, dal canto e dai passi di danza: queste
entità, trattate come "presenze" (hadràt) che il principio di coscienza
incontra nello spazio/tempo estatico (hal), sono messe in relazione con
complessi mentali e comportamenti umani. Scopo del rituale è reintegrare
ed equilibrare le energie fondamentali del corpo umano, le stesse energie
che sostengono i fenomeni sensibili e l'attività creatrice divina.
All'interno della confraternita, ogni gruppo (zriba) si riunisce attorno a
una moqadmà, la sacerdotessa-officiante che guida la danza estatica
(jedbà), e a un ma`allem, il maestro del ganbri (liuto-tamburo),
accompagnato dai suonatori di qraqèb (crotali di ferro).
Preceduto da un sacrificio animale, che assicura il sostentamento per la
serata, il rituale notturno inizia con l'apertura e la consacrazione dello
spazio, l'`aada ("abitudine", forma rituale), durante la quale i musicisti
Gnawa eseguono una danza vorticosa suonando i qraqèb e due grossi tamburi
a doppia membrana (tbola).
Il successivo intervento del ganbri apre il trèq (sentiero), la
successione, rigidamente codificata, del repertorio rituale di musiche,
danze, colori e incensi, che guida nel viaggio estatico attraverso i
dominî dei sette mlùk, fino alla rinascita nel mondo ordinario, alle prime
luci dell'alba.» [4]
Nelle righe sottolineate si può vedere la funzione terapeutica che la
musica svolge nei rituali tradizionali degli gnawa. Esattamente come
scoperto nel mio pellegrinare tesistico da guaritori, musicoterapeuti
occidentali, artisti, religiosi, antropologi [5]: la malattia si configura
come uno squilibrio energetico, che la musica (vibrazione „udibile‰)
aggiusta ri-sintonizzando il „paziente‰ sulle onde vibratorie „corrette‰,
ovvero sulle lunghezze d‚onda di salute-equilibrio. Le musiche ad hoc per
un mal di stomaco (ad esempio) non sono altro che le vibrazioni rese
„udibili‰ dello stomaco che sta bene: per effetto della risonanza (noi
ascoltiamo con tutto il corpo), lo stomaco risponde agli stimoli musicali
ri-equilibrandosi. I ritmi dei rituali (non solo gnawa) sono ossessivi, ed
è questa la chiave della terapia in musica: il corpo è in un naturale
processo di guarigione, la musica deve accompagnarlo, e nel farlo servono
suoni appunto ripetitivi, rassicuranti, che non creino movimenti bruschi
se l‚organismo è debilitato. I suoni ossessivi possono essere poi
vorticosi se è dinamica la meditazione per la trance, che è un‚esperienza
in cui si sperimentano degli stati di coscienza modificati rispetto a
quelli quotidiani dominati dalle frenetiche onde cerebrali beta. Nella
trance l‚individuo (il danzatore estatico nei rituali gnawa) sperimenta un
allargamento di coscienza, un ampliamento della sua capacità di ricezione
delle energie sottili. In questo stato estatico la persona gode del
distacco dalle dimensioni di spazio-tempo, per assaporare il contatto con
una forma di quiete e di beatitudine che non appartiene allo stato di
coscienza del quotidiano. I ritmi così impostati sostengono l‚individuo
nel suo processo di ri-equilibrio, sostengono il suo corpo nel
ri-assestarsi su ritmi di salute; il tutto in un processo in cui la musica
crea dei „vortici‰ nell‚aria che „materialmente‰ danno il ritmo al corpo
per riprendere a vibrare in modo ottimale. È interessante a tal proposito
quello che ha scritto Elemire Zolla sulle ninnananne, che sono appunto una
forma universale di musicoterapia „casereccia‰ dai ritmi ripetitivi.
Infatti è solo con ritmiche dolci e ondeggianti (culle sonore) che si
facilita l‚addormentarsi del bambino: la voce della mamma non fa che
seguire i ritmi che naturalmente portano alla fase di sonno. È un gioco di
sintonizzazione reciproca.«[∑] Platone accennò al significato filosofico delle ninnananne, che
considerava paradigmi di psicoterapia. Esse contengono la gamma dei
possibili archetipi in forma di moduli ritmici: la tensione al molteplice
si esprime nei giambi U ─, U ─, scandendoli, la madre imita la
molteplice angoscia del bambino e così s‚insinua nella tessitura dei suoi
più intimi polsi e a poco a poco vi immette tronchei e dattili ─ U,
─ U U, archetipi di distensione, di acquietamento. I polsi infantili
imitano chi li ha imitati, si lasciano sedurre e via via la madre li
intona all‚estatica unità che la solennità dell‚anapesto rispecchia: U U
─, U U ─.» [6]
Jazz: Africa, Europa, schiavitù e i colori dell‚anima
Come abbiamo visto le musiche gnawa nascono in un contesto in cui la
schiavitù è la condizione originaria di quest‚etnia marocchina,
esattamente come per il jazz, che nasce in America dagli schiavi africani.
Abbiamo quindi una matrice comune che si ri-incontra in Italia nei MLUK:
Africa e schiavitù. I corsi e ricorsi storici ci dicono quindi che, al di
là degli aspetti culturali (ma bensì attraverso di essi),
l‚archetipo-della-schiavitù e l‚archetipo-della-liberazione (ricerca delle
radici), s‚intrecciano in un tipo di musica istintuale che esprime il
patimento e la forza della libertà. L‚archetipo della schiavitù implica un
meccanismo di fondo che è nella direzione dell‚anti-vita, ovvero dello
sfruttamento della vita altrui (meccanismo parassitario): repressione,
blocco, coartazione, distruzione progressiva: «Tu sei nulla, ma come nulla
ti utilizzo finché mi servi, poi muori»∑ ecco l‚anti-vita. La risposta a
tale archetipo, è l‚archetipo della liberazione attraverso la ricerca
delle proprie radici, che si muove sul livello di rottura di un giogo: il
meccanismo è il rompere le catene, sia fisiche che psicologiche. Un mezzo,
per sentirsi liberi, è la musica, che come arte è immediata e aggregante.
«Gli schiavi neri, deportati dall'Africa dal 1500 al 1865, si incontrarono
con gli europei giunti a colonizzare le Americhe, e dall'incrocio di forze
sotterranee di un popolo considerato istintivo (gli africani) e
dall'idealismo occidentale nato dalla Grecia classica e dal mondo
germanico fiorì una nuova forma culturale basata sulla creatività
istintività conviviale e sull'improvvisazione; vocale e strumentale». [7]
Ecco delle radici che si congiungono, e che richiamano la nostra
tradizione culturale europea, che spiega perché il jazz abbia così grande
terreno in Europa; per non parlare dell‚Italia, culla della tradizione
greca e terra di migranti, nonché terra di continue conquiste e
dominazioni.
«Nel sud degli Stati Uniti gli schiavi neri si mantennero legati alla loro
musica e innanzitutto al canto; gli strumenti musicali portati
dall'Africa, in particolare i tamburi, furono infatti confiscati in quanto
i bianchi credevano che fossero usati per comunicare e per incitarsi alla
ribellione. Le canzoni, work songs, le plantation songs, avevano vita per
vincere la condizione di inferiorità e assoggettamento al quale erano
costretti e per non dimenticare la propria identità delle quale i black
codes (codici per i neri) li avevano privati. La tradizione musicale
africana era collegata ad avvenimenti della vita quotidiana agricola e
pastorale e manifestazioni guerresche.
La tradizione europea fornì l'impulso per attingere da altre forme
musicali: la musica classica, i canti religiosi, le canzoni
folcloristiche, le musiche da ballo, le marce, le opere liriche, e infine
gli strumenti musicali dal pianoforte agli strumenti a fiato.» [8]
La creatività umana messa alle strette dalle catene e sospinta
dall‚istinto al movimento di matrice africana, ha fatto scattare la
scintilla in quegli schiavi deportati che, non avendo nulla da perdere,
hanno liberato almeno la loro anima dal giogo delle catene. Da quella
condizione di emarginazione e di sfruttamento, il moto di ribellione,
spontaneo, animale, è nato per dire che l‚uomo non è fatto per le catene.
Quella scintilla che ha dato vita anche al blues, al gospel, allo
spiritual, riecheggia ogni volta che si suona jazz: traspare, emerge,
galleggia tra i suoni, che sfregati gli uni con gli altri ridanno
sensazioni di libertà, libertà dell‚anima∑ tutto quello che gli schiavisti
avevano era tutto quello che gli schiavi non avevano∑ e viceversa∑
E allora, che cosa spinge ancora a suonare jazz e ad ascoltare jazz? Le
catene ci sono sempre, visibili o meno, il jazz è un mezzo che può
aiutarci non solo a trovare uno sfogo, ma anche a maturare una crescita
personale verso l‚indipendenza. Il tutto avviene a partire dalle emozioni
che suscita, le quali inevitabilmente spronano all‚emergere delle nostre
forze ribelli. La musica agisce nel subconscio, apre le porte della
consapevolezza, vediamo più nitidamente le nostre catene, sentiamo le
energie che sprigiona in noi prevalere e guidarci verso scelte e azioni di
cambiamento. Questo percorso passa da un linguaggio in cui prevale il
suono, che agisce sulla mente schiarendola, facilitando la presa di
coscienza dei moti dell‚anima, che se lasciata libera di „giocare‰ è in
grado di farci sperimentare un‚autentica libertà∑
Impulsi di libertà, battiti di cuore musicale,
note frenetiche, note addolcenti,
intima contemplazione interiore, sfogo disperato,
ferita storico-sociale, forza ancestrale,
radici pulsanti calde, ferite pulsanti calde,
impressioni sonore, colori nella mente,
spaccio di note a grappoli, paure,
angosce, malinconie,
gioie, esultanza, ribellione,
atti di rottura, introspezione,
viaggio nel Centro dell‚esistenza,
profondità dei drammi, sogni elettrici, visioni,
ascese spirituali, discese infernali,
velocità, lento meditare∑
∑Jazz∑

Note al testo
[1] www.musica90.net/manifestazioni.php?idCurrSheet=312
[2] Gebbia: sax alto, sopranino e c-melody.
[3] www.africainmusica.org/instruments/italiano/idiofoni/Quarqaba.htm
[4] Testo di Antonio Baldassarre: www.gnawa.net/gnawaitaly.htm
[5] Il titolo della mia tesi in psicologia clinica e di comunità è: „La
musica come strumento trasformativo nei gruppi e nell‚individuo:
osservazioni su interviste e testi transculturali‰.
[6] Elemire Zolla, Archetipi, Marsilio, Venezia, 2005 (V ed.), pp. 48-49
[7] users.libero.it/supnick/
[8] users.libero.it/supnick/

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PRESS ZERO TOLERANCE:
in “Slovenia Sketches” Live al Teatro ITC di S. Lazzaro (Bo)
“ La prima serata ha visto gli Zero Tolerance chiamati ad accompagnare una serie di filmati provenienti dalla cineteca nazionale slovena risalenti agli inizi del secolo scorso e, data la formazione del gruppo, comprendente Dj Max ai giradischi, Dj Fab ai CD e live electronics e Francesco Cusa alla batteria, sarà facile comprendere come l'evento sia stato connotato da un profondo senso di contrasto, che ha fatto della distanza tanto temporale quanto essenziale tra le due forme espressive la sua chiave di lettura.
..Musiche, suoni e rumori sono stati process(ualizz)ati dai due dj manipolatori in ritmi elettronici ossessivi, feroci e martellanti, sui quali Cusa ha innestato, con tratto puntillistico, una batteria spezzata e desolata. .” ALL ABOUT JAZZ


“Recensione del concerto al festival di Huerta Cordel a Madrid”
El viernes le tocó el turno a „Zero Tolerance‰, cuarteto italiano formado por Gianni Gebbia (saxo alto), Francesco Cusa (batería) y los dj‚s Max Ferraresi y Fab Gregorio. Era una propuesta a priori atractiva que se quedó en un fiasco, en gran medida por culpa de los diyeis, que con su tapiz sonoro fabricado con ingredientes de lo más vacuo y trillado, lastraron toda posibilidad de que la música despegase hacia terrenos estimulantes. Gebbia, aunque parecía no tener un buen día, demostró ser un (muy) buen saxofonista**. Por su parte, Cusa sabe tocar la batería, y muy bien, pero prefirió desplegar su vena humorística: y no se puede negar que tiene mucha gracia, pero dejó demasiado de lado el aspecto musical. Claro que frente a la rémora de los dos dj‚s, incapaces de proponer algo interesante y de reaccionar a lo que hacían Gebbia y Cusa, poco podía salir del encuentro.
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PRESS FRANCESCO CUSA:


FRANCESCO CUSA IN "MACCHINA DISORGANIZZATA"
“…quando dopo è toccato a Francesco Cusa sottoporsi a questo strabiliante progetto l'atmosfera è cambiata, dal sogno, dal surreale si è passato alla realtà, ai ritmi di una batteria suonata con maestria, con forza e con inventiva che raramente si ritrovano nei batteristi moderni. Ci si è trovati dunque in due mondi diversi, affascinanti, contrastanti che poi in un fuori programma si sono frullati in 15minuti di spettacolo puro, di energia raggiante di ottima musica…”
GIRO DI VITE


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PRESS: FRANCESCO CUSA “SOLOMOVIE”: Su Buster Keaton


“..e, come se ve ne fosse bisogno, t’accorgi che per essere moderni basta tornare all’antico. Con una piccola ‘correzione’, magari: invece del pianista ‘allunato’ sotto lo schermo, schiavo e padrone del film, un batterista all’opera che è anche il solitario direttore d’orchestra di una ‘audio-remix-composition’. E’ dunque Cusa, e nessun altro (salvo la sua traboccante consolle ‘mangiasuoni’) lui pure da schiavo-padrone, che commenta e ‘acccompagna’ un’autentica perla del Muto ‘Sherlock jr.’ del 1924..Ebbene, rispettando appieno i tempi del film muto (con cui il pubblico teneva perfettamente il passo, ‘spezzando’ i silenzi dei momenti più acrobatici con risate liberatorie per le irresistibili prodezze di Keaton), Francesco Cusa ‘plays Buster Keaton’, lo ‘suona’, sissignore, con un variegato, proteiforme inseguimento sonoro. Dalle percussioni solenni - quasi da banditore - dei titoli di testa ad ‘infiltrazioni’ d’ogni genere: loops, fraseggi di musica elettronica, echi di ‘chansonnier’, parentesi rock-pop ed ancora striature di pop e R & B. E con uno strumento deciso e reciso come la batteria che riesce, infatti a ‘tagliare’ i fotogrammi e ricollegarli tra loro, realizzando, come dire, dei piani sequanza del suono...l’entusiasmo di applausi e chiamate, alla fine, nonché il buongusto della performance, ci porta di nuovo a saccheggiare Woody Allen. Ma lo facciamo a ragion veduta: provaci ancora Sam”. LA SICILIA“

FRANCESCO CUSA SOLOMOVIE (Italy)

Buster Keaton: Sherlock Jr.: projekcija nemega filma (screening of silent movie)
Francesco Cusa - bobni, razlic¹na tolkaka, igrac¹e, trakovi (drums, percussion, toys, tapes)
Francesco Cusa, priznani bobnarski improvizator s Sicilije, c¹lan razlic¹nih novojazzovskih skupin, kot so Trionacria, Zero Tolerance in Switters, da nas¹tejemo samo najbolj znane in tiste s katerimi je tudi nastopil pri nas, prihaja na Sotoc¹je s c¹isto posebnim projektom. Imeli bomo namrec¹ priloz¹nost videti eno najvec¹jih mojstrovin nemega filma, film genialnega komika in rez¹iserja Busterja Keatona z naslovom Sherlock Jr., Cusa pa bo s svojim arsenalom instrumentov ta film zvoc¹no podlagal. In s¹e vec¹ kot to, kajti tako duhovita spremljava postane z¹e prava nadgradnja komic¹nim situacijam na platnu in to nas sili v neustavljivi smeh. Domiselnost in izvirnost Cuse je res enkratna.
Mojster bo v okviru letos¹nje Sajete vodil tudi celotedensko glasbeno delavnico t¹The naked musiciansT¹, na kateri lahko sodelujete vsi, ki vam je do glasbe, c¹etudi boste instrument drz¹ali prvic¹. Kakrs¹enkoli instrument ali zvoc¹ilo prinesite s seboj in druz¹no bomo odkrivali glasbeno vesolje.”

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“Francesco Cusa, acclaimed Sicilian drummer, member of various nu jazz ensembles the likes of Trionacria, Zero Tolerance and Switters, to name just the best known that have already played Slovenia, is coming to Sotoc¹je with a very special project. Actually, we'll have the opportunity of seeing one of the greatest masterpieces of silent film, a movie by the genius Buster Keaton entitled Sherlock Jr., while Cusa will provide sonic background with his arsenal of instruments. Even more than this, since such a witty accompaniment becomes a further development of the comic situations on screen, delivering unstoppable laughter. Cusa's ingenuity is truly unique.
The master will also be heading a week-long percussion workshop as part of this year's Sajeta, and by applying and participating you will be able to develop your skills on various percussion instruments.”
(Sajeta Jazz Fest)“

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Bubnjevi za Bustera Keatona RIJEKA – Zanimljiv i nesvakidas¹nji jednosatni glazbeno-filmski performance pod naslovom "Solomovie – Francesco Cusa svira Bustera Keatona" izveo je u parku nekadas¹nje tvornice "Rikard Benèiæ" talijanski jazz bubnjar Fancesco Cusa, odus¹evivs¹i publiku sjajnim nastupom. Njegov se nastup sastoji od video-projekcije nijemog filma Bustera Keatona "Sherlock" èiju radnju talijanski umjetnik prati elektronièkim samplovima, razlièitim zvukovima i bubnjanjem "uz¹ivo", kreirajuæi na taj naèin novi soundtrack filma koji æe podcrtati radnju, ali i apsolutno pratiti z¹estoki ritam filma.
Francesco Cusa (1966), rodom iz Catanije, veæ se okus¹ao u sliènim projektima – radio je svjedobno i remiksani soundtrack za film Sergia Leonea "Za s¹aku dolara" za kojeg je glazbu pisao Ennio Morricone, te za film "Tetsuo 2 - the body hammer", a "Bustera Keatona" predstavio je poèetkom godine i u zagrebaèkom KSETU. Na talijanskoj i europskoj glazbenoj sceni prisutan je vis¹e od 15 godina, utemeljitelj je nekoliko sastava (Impasse, 66six, Skrunch) i suradnik mnogih eminentnih glazbenika, a kritika ga drz¹i jednim od najzanimljivijih istraz¹ivaèa suvremenog jazz izraza. Proteklog tjedna odrz¹ao je jazz radionicu u slovenskom Tolminu, te koncerte u Kranju i Travniku, a veæ danas nastupa u Veneciji.
Nastupom Francesca Cuse udruga "Spirit" privodi ovogodis¹nji ljetni program u "Benèiæu" kraju. Uz veèeri poezije, slammanje poezije i veèeri bluesa sa Lukeom Skysleeperom, "Spirit" je tijekom ljeta organizirao u svom prostoru ili u parku "Benèiæa" performance "7 tableta za spavanje" Nove grupe iz Zagreba, predstavu "Kraj na zemlji" Teatra Kufer, freestyle rap natjecanja za mlade rijeèke hip-hopere, izloz¹bu kreativnih radova natjecanja "Red Bulla", izloz¹be "Hommage za Tina Ujeviæa", haiku poezije i crtez¹a Borivoja Bukve, stripova mladih rijeèkih autora, te koncerte francuske grupe "Vialka", njemaèkih rockera "HSD" i "Compact Justice", talijanskog benda "Old Hate" i koncert Draz¹ena Franoliæa na arapskoj lutnji. “
I. FRLAN
© Copyright 2002 NOVI LIST d.d. Sva prava pridrz¹ana.
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Parte "JazzMovie" musica da guardare
Francesco Cusa esegue la colonna sonora di un film di Keaton

GIGI RAZETE (La Repubblica)

Storie tragiche o di surreale comicità, documenti zeppi di irripetibili virtuosismi o che catturano momenti magici di esplosione improvvisativa, reperti dimenticati e fotogrammi ormai consegnati alla storia dell´arte visiva e sonora: tutto questo e molto altro scorrerà sullo schermo di "JazzMovie", la rassegna cinematografica sul jazz e sui suoi miti che il Vicoletto di cortile Lo Presti 1 (zona corso Camillo Finocchiaro Aprile) propone a partire da stasera con cadenza settimanale (ogni mercoledì alle 23, ingresso con tessera annuale Endas da 5 euro più contributo singolo da 3,5 euro, consumazione compresa) fino al 7 aprile.
Diretta da Massimo Merighi, "JazzMovie" si inaugura stasera con "SoloMovie", insolita performance solitaria dal vivo che il batterista catanese Francesco Cusa, tra i più fantasiosi artisti di area sperimentale, svilupperà sulle immagini di "Sherlock Jr.", celebre film del 1924 diretto e interpretato dal mitico comico americano Buster Keaton (l´opera giunse in Italia col titolo "Calma, signori miei!"). L´opera di Cusa, già presentata in molte città europee con notevole successo di critica e di pubblico, utilizza anche materiali audio tratti dal più ampio scibile musicale, sia come frammenti elettronici sia come loops e strutture cicliche, e costituisce in pratica una nuova colonna sonora del film di Keaton o, per definirla con l´autore, una «audio-remix composition».
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PRESS:PAOLO SORGE "Trinkle Trio"


- PAOLO SORGE "Trinkle Trio"
with Michel Godard and Francesco Cusa - AUAND AU9003 (2003)..LINER NOTE:
"..I did describe the group as an orchestra, for in my mind's eye I can clearly make out the various sections of brass, strings and percussion, the imagination being one of the few liberties we still have intact. The musicians of this group have deep-rooted, spiritual links with Monk's enigmatic and visionary music..some people may be upset by the odd "pseudo-techno" treatment; but then why should Monk's music not also provide valid dance music? I feel Monk would have much preferred some of these more roguish reworkings to many of the glossier and more tasteless imitations which abound. Am I dreaming? Perhaps I am. But nobody can rob us of our dreams. Well done, Francesco, Michel, Paolo. Bravi!"
Bruno Tommaso

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All About Jazz Italia, Maurizio Comandini jan.2004
Trinkle Trio del chitarrista Paolo Sorge (pubblicato dalla pugliese Auand) è un riuscito omaggio alle composizioni di Thelonious Monk, racchiuse elegantemente da un prologo e da un epilogo scritti da Sorge stesso. La scelta di utilizzare la tuba di Michel Godard al posto dell'usuale basso consente una tessitura del tutto peculiare che permette impasti sonori ancora più stralunati rispetto a quelli che già abitualmente siamo portati ad associare alla musica del geniale pianista americano. Il terzo lato del perfetto triangolo messo in campo da Sorge è costituito dalla batteria di Francesco Cusa, prezioso punto di appoggio, capace di farsi carico della tensione ritmica che procede immancabilmente a strappi (altrimenti non sarebbe Monk), capace di efficaci soluzioni poliritmiche che spesso ricorrono a soluzioni più da percussionista che non da batteur. Due siciliani ed un francese, tre musicisti che non hanno timori reverenziali e sanno prendersi le loro libertà con le composizioni di uno dei giganti della musica jazz. Lo fanno con gusto e con leggerezza, lo fanno con evidente passione e solida competenza, lo fanno sperimentando senza remore le mille strade che partono dal mondo di Monk per giungere ai suoni del nuovo millenio.
omandini jan.2004

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Jazzman, Jean Buzelin nov.2003
Tout étonne et ravit dans ce très joli disque: le trio "sicilien" du guitariste Paolo Sorge avec le percussionniste Francesco Cusa et le tubiste Michel Godard qui garde toujours un oeil du côté de la Méditerranée, le choix du sujet thématique, Thelonious Monk exclusivement, et la fraîcheur, l'humour et la musicalité qui s'en dégagent. On aura en effet rarement entendu Monk interprété de cette manière et avec cet alliage instrumental. La guitare électique et le tuba, qui en effectuent une lecture précise, à la fois ouverte et orchestrée, restituent admirablement l'architecture de chacune des compositions du prophète. C'est un travail intelligent, plein d'idées et qui manifeste à l'écoute un grand sens de la communication de la part des trois musiciens. Lesquels ont dû prendre un grand plaisir à le réaliser. Voilà qui donne tout naturellement l'envie de les entendre en direct et justifie donc l'attention portée par le chroniqueur.
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All About Jazz USA, Glenn Astarita feb.2004
Guitarist Paolo Sorge uses electronics in spots for this creative guitar-tuba-drums outing consisting of Thelonious Monk compositions and two originals by the leader. At times, the trio breaks these Monk works into tiny components, only to reengineer various motifs into spacious forays. Essentially, it's nice to hear modern jazz musicians inject their personal stamp into Monk's songbook. Sorge, tubaist Michel Godard and drummer Francesco Cusa should be applauded for their loosely visualized concepts and tight-knit coordination.

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Jazzitalia, Marco Losavio oct.2003
Ma che avranno da dire ancora su Monk? Un'altra operazione che sfrutta il nome di Monk, le sue statuarie composizioni. Queste, e altre, sono state le mie prime considerazioni appena ho ricevuto il disco. L'ho inserito quindi con uno scetticismo abbastanza elevato e le prime note mi hanno creato addirittura "imbarazzo" da ascoltatore... Si ascoltano suoni distorti, basso tuba che sembra vada per i fatti suoi, batteria che cerca disperatamente degli spazi per inserirsi senza quindi porsi un obiettivo ritmico ben preciso. Come lampi, quasi ad illuminare il cammino in modo da aiutare nel ritrovare ... "la retta via", ci sono frammenti di melodie di Monk, riconoscibili sempre, ovunque, comunque.
Allora l'ho riascoltato un'altra volta, un'altra volta ancora ed ecco che ho cominciato a sentirmi più a mio agio, quei lampi sono stati sempre meno necessari. Ho pensato alle composizioni di Monk come ad un modellino di veliero composto da mille particolari che Paolo Sorge ha avuto il coraggio di smontare, sicuro poi di poterlo ricomporre. Sorge conosce bene, anzi benissimo, questo veliero e nel smontarlo ha provato sicuramente una grande emozione perchè ha così scoperto mille segreti, nascosti ai più, ma che rendevano il risultato finale bello, statuario. Chiede allora aiuto a Michel Godard e Francesco Cusa per il rimontaggio. Godard, con il basso tuba, sembra fare un po' il "saputone" nel dire come andrebbe rimontato il tutto e Cusa, alla batteria, sembra essere l'addetto alla catalogazione dei pezzi, creando però ancora maggiore confusione. Sorge, dal canto suo, rimasto affascinato da quanto ha scoperto, non resiste nel raccontare a cosa serve ogni frammento perdendo di vista l'obiettivo iniziale. Alla fine si ritrovano con qualcosa che non assomiglia affatto al veliero originario ma che ne contiene molte parti, riconoscibili a prima vista, e la sapienza è stata quella di aver salvato alcune delle parti fondamentali.
Non dimentichiamoci che Monk aveva il piano che a volte sembrava scordato, suonava con una tecnica che i puristi aborrono, scovava dissonanze che un orecchio poco allenato avrebbe rifiutato categoricamente, attendeva l'ultimo istante ritmico possibile per prendere note che ci si aspettava in altri momenti mettendo in difficoltà il "piedino" che porta il quattro eppure, tutto questo, oggi, lo paragoniamo a qualcosa di perfetto, statuario, incantevole. Paolo Sorge ha messo in piedi un progetto di totale decostruzione dell'opera Monkiana salvaguardando tutti gli aspetti appena menzionati tanto che alla fine posso affermare che Sorge stesso, su questo CD, suona a-la-Monk molto più di ciò che sembri, usa la chitarra come Monk usava il piano. E i suoi compagni sono lì a creare colori, commenti e non a determinare il sound di Monk. Godard contrappunta continuamente, o accenna le melodie, ma lo fa con assoluta libertà senza doversi necessariamente porre in attesa del momento del suo solo, così come Francesco Cusa abbandona ogni schema ritmico per concedersi delle figurazioni sovrapposte al ritmo di base stesso, perfettamente percepibile perchè è comunque sempre rimarcato a turno da tutti, magari con qualcosa di essenziale, ma c'è.
E così i brani scorrono uno dopo l'altro, senza pausa, e ognuno lascia per strada qualcosa, un ricordo, un'emozione, un tentativo di innovazione, a tratti coraggiosa ma forte del background dei musicisti.
Allora non posso che concludere dicendo: Monk! Per sempre Monk!


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Famiglia Cristiana, Roberto Parmeggiani aug.2003
Il titolo di questo disco, che nella realtà si riduce al nome del gruppo che l'ha realizzato, avrebbe potuto essere Lo strano caso del dottor Sorge e mister Monk. Strano perchè undici celebri composizioni monkiane (Evidence, Trinkle Tinkle, Misterioso, Ask me now, eccetera), strane di per sè, vengono ulteriormente straniate dai tre musicisti qui all'opera, guidati dal chitarrista Paolo Sorge che, come un chirurgo sadico, le seziona, le fruga nel profondo e poi ricuce in un risultato finale affascinante.
Ancora, lo stesso organico all'opera nell'album è strano: oltre al leader (che trae dalla chitarra elettrica effetti sorprendenti, usandola spesso in chiave ritmica), ci sono il basso tuba corposo e irriverente di un genio come il francese Michel Godard e la batteria ("etnica" e leggera) di Francesco Cusa.
E dunque: musica strana, spigolosa, che cambia di continuo e che, conservando intatti i grandi temi di Thelonious Monk, li trasforma in qualcos'altro. Qualcosa di strano.

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Blow Up, Enrico Bettinello dic.2003
Nuova uscita per la piccola ma coraggiosa Auand, etichetta italiana che traccia linee sempre coraggiose tra i nostri musicisti e altre realtà del jazz europeo e americano. Il trio del chitarrista Paolo Sorge, completato dalla tuba di Michel Godard e dalle percussioni di Francesco Cusa, affronta con organico sghembo un repertorio obliquo per eccellenza come quello di Thelonious Monk, scelta felice non solo perchè la timbrica consente felici contrasti, ma anche perchè le composizioni del pianista vengono affrontate in maniera mai banale, smontando dall'interno le strutture stesse e rimontandole in [monkianissime] danze inquiete di modo da costruire l'improvvisazione secondo forme piramidali. Bello.
7+

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Jazzit, Paolo Carradori nov/dic.2003
Il Trinkle Trio del chitarrista siciliano Paolo Sorge sceglie di immergersi, come il nome del gruppo suggerisce, nelle splendide ma infide acque monkiane. Eccetto il primo e l'ultimo brano (Prologo e Epilogo dello stesso leader) vengono infatti rivisitate undici perle oramai patrimonio della musica del '900, da Evidence a Misterioso, da I Mean You a Monk's Mood. L'approccio del trio punta di preferenza a uno scardinamento del tessuto ritmico, con ampi spazi improvvisativi, lasciando quasi inalterate le strutture armoniche. In questa direzione il ricco e mai banale lavoro percussivo di Cusa emerge con forza, mentre la tuba di Godard - leggera, ironica, ricca di sfumature - illumina tutto il percorso del disco. La chitarra di Sorge, concentrata a ricercare nelle partiture di Monk spazi sonori e visioni, emerge con grinta in pochi e generosi soli. Un punto di vista su Monk originale che rischia però, in alcuni passaggi, di divenire formula omologando i brani.

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Jazzweekly, Ken Waxman nov.2003
Programming a CD of jazz classics can be a mug's game, especially if the compositions have a familiar resonance for many people. Play them too close to the originals and they sounds like imitations; make them too different and they sound like parodies. This brand-new CD by a Mediterranean trio attempt to overcome the challenge. Although impressive, it is not 100 percent satisfying. POMO to the Nth extreme, Trinkle Trio is supposed to be an example of "minimalistic repetitive patterns" -- according to the booklet notes -- but instead appears to be a heavy metal take on the music of Thelonious Monk. No jazz composition is sacrosanct, yet, while the band lead by Sicilian guitarist Paolo Sorge understands Monk's idiosyncrasies, the members often miss the craft that underlined even his more astringent compositions. A touring unit, the Trinkle Trio laid down these 13 tracks -- prologue, epilogue and 11 Monk tunes -- in 2002. To some it may seem that the majority of pieces are played too uptempo and with too conventional rhythm. Nevertheless hard thought obviously went into the interpretations. It's just that while the trio has come up with a solution on how to deal with familiar tunes, the solution is unfortunately almost the same for each one. A ringer -- he's French, the other two Italian -- tuba player Michel Godard has insight into these sort of projects, having restructured ancient and/or atmospheric music in period or POMO settings with the likes of French cellist Vincent Courtois and sympathetic Italians like trumpeter Pino Minafra and percussionist Tiziano Tononi. Percussionist Francisco Cusa, who like leader Sorge was born in Catania, but now lives in Bologna, has worked with Sicilian avant players like saxist Gianni Gebbia and created a solo sound track for a Buster Keaton film. Yet here his rhythm sounds as if its inspiration is more from Alex Van Halen and Iron Maiden's Clive Burr than Monk favorites Art Blakey and Art Taylor. Part of the disconnect may come from Sorge, who teaches, plays jazz and works on TV, radio and film projects. During his schooling he took master classes from John Scofield, Joe Pass and Joe Diorio among others and throughout he seems to be trying to force the pieces into a guitar mold, rather than adopting his guitar playing to Monk's vision. As early as "I Mean You" -- with the theme carried by Godard's tuba -- the tune seems to have mutated into a shuffle featuring Hawaiian guitar slides. Later, the tubaist's digressions on the theme almost wilt beneath Sorge's distorted reverb and effects pedal, so that the result is more "Telstar" than "Thelonious". This Hawaiian reverb reappears on "Monk's Mood", with its balladic tone heavy with delay from the guitar's bass strings. Although it shows one of the few examples of his brushwork, Cusa treats the piece as exotic nightclub fodder, with punished woodblock thwacks, whirl drum expressions and Afro-Cuban percussion. What could be African junkeroo percussion, chunka-chunka rhythm guitar beats and an extended tuba ostinato makes its appearance on "Bye-Ya" as well. As the drummer continues hitting his cowbell, Sorge involves himself in Hard Rock-style, razor-sharp flat picking and slurred staccato riffs extended with effects pedal distortion. It's a glimpse into what would happen if Al DiMeola and Billy Cobham ever decide to play Monk. Putting aside the overdone arena rock guitar rasping, tremolo distortions and the time the drummer seems to suture a reggae backbeat onto another tune, the only other real disappointment is "Crepuscule with Nellie," a tender tune Monk wrote for his wife. Using a wah-wah pedal to project slurred feedback and repetitive tones, Sorge seems to encourage Cusa to thrash different parts of his extended kit, and symbolically goose Godard's tuba line enough so that the Frenchman appears to be taking some undignified hops away from the melody. Reverb from the guitar seems to suggest that Nellie's twilight is in the 1960s in Haight-Ashbury with Quicksilver Messenger Service, not the 1950s in San Juan Hill with Monk. Some experiments are more memorable, though. "Friday the 13th" works as crackling, low-pitched thematic variation, bisected by slap tonguing issuing from Godard. Cusa adds speedy paradiddles and Sorge gives up chicken scratching and reverb distortion to double the tubaist's thematic line. "Little Rootie Tootie" is looped with some tremolo knob effects that keep the melody spiky, although the vaudeville-style drumbeats could be been lost. "Evidence" gains an expansion of time and volume as Cusa plays half-step percussion, Sorge's volume knob distorts the undertow, and Godard vaults to his top range to squeal out grace notes. Though unique, Trinkle Trio works less well, since at times reconstitution of the compositions seems to negate their original intent. With this lesson internalized and his obvious technique intact, perhaps Sorge will score more unequivocally another time out with less distinct source material.

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Ritmo, Alberto Bazzurro oct.2003
... e chiudiamo con un altro lavoro firmato da un giovane (trentacinque anni, in verità, ma oggi sono pochi), il chitarrista Paolo Sorge, che nell'ottimo "Trinkle Trio" (Auand) si accompagna al tubista francese Michel Godard e al batterista siculo-bolognese Francesco Cusa. Il disco ha la particolarità di chiudere a sandwich, fra un Prologo e un Epilogo a firma del leader, undici temi di Thelonious Monk, sottoposti a un trattamento che, anche per le particolari timbriche del gruppo, può ricordare per certi versi le analoghe operazioni compiute anni or sono dal trio di Paul Motian con Bill Frisell e Joe Lovano. Attraverso percorsi al tempo stesso morbidi e accidentati, le riletture più apprezzabili - ma non ce n'è nessuna che non sia tale - sembrano coincidere - e poi va molto a gusto personale, anche per il tema prescelto - con I Mean You, Evidence, Bye-Ya, Crepuscule With Nellie, Ask Me Now, Monk's Mood e Little Rootie Tootie. Un album che rappresenta un vero piacere per l'orecchio, devoto e irriverente quanto basta (oltre che sempre elegante) per far parlare di un piccolo capolavoro.

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Musica Jazz, Antonia Tessitore mar.2004
La musica di Monk non è facile da rimodellare: possiede al suo interno legami forti, difficili da smembrare, e non è un caso che siano relativamente pochi i musicisti che vi si misurano in maniera approfondita (finanche John Coltrane ha avuto le sue difficoltà). Tra gli "specialisti" vengono in mente Steve Lacy, Misha Mengelberg, Umberto Petrin e ora dovremmo forse aggiungere il nome del chitarrista catanese, che alle composizioni di Monk ha dedicato "Trinkle Trio", un'opera prima coraggiosa e convincente che non esita a portare il repertorio monkiano su terreni ben lontani dalla forma originaria, lavorando su alcune caratteristiche della musica - sospensione, ripetizione, silenzio, asimmetria - ma soprattutto sul materiale tematico.
Ed è qui che Sorge rivela le proprie abilità non solo di strumentista ma anche di compositore, nella capacità di cogliere le potenzialità generatrici e centrifughe delle melodie (a volte persino di piccoli frammenti, semplici intervalli o figure ritmiche) senza mai distaccarsene completamente. Tali evocazioni prendono corpo negli abissi della tuba di Godard o nella chitarra inquieta di Sorge; appaiono e scompaiono - ripetute, distorte, frammentate, dilatate, sdoppiate o sovrapposte - all'interno di un tessuto ritmico mobile che alterna pulsazione regolare (rock, dub, drum'n'bass) a fraseggio libero. Chi opta per la conservazione della tradizione in stile Marsalis storcerà il naso; gli altri potrebbero invece gioire di uno sguardo inedito sulla musica del grande pianista.

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PRESS:FRANCESCO CUSA/SAADET TURKOZ DUO
“Saadet Turkoz e Cusa, uno straordinario incastro: riuscito esperimento musicale a Scenario Pubblico: ..un inquieto, talentoso batterista occidentale da un canto e dall’altro una vocalist straordinaria..un duo formidabile nel concerto ‘Memory is everywhere’..è stato un incastro perfetto du culture e culti, osmosi e simbiosi a un tempo. Cusa accende i motori con un’improvvisazione articolata e variegata: è strepitoso alla batteria che talvolta ‘sfruculìa’ con fogli di carta, pezzuole e una sorta di birillo che un attimo dopo userà come finto microfono..tutto è suono e tutto suona. E non per sperimentalismo di maniera ma per vera attitudine all’esperimento musicale che non fa che scoprire talento,talento,talento. In una parola, interpretazione. Successo scalmanato e meritato, alla fine”. LA SICILIA


Cusa e Turkoz, sperimentalismo puro:
“Siano foulard o le più canoniche bacchette i suoi strumenti, le ondate timbriche delle percussioni di Francesco Cusa si innestano sulle melodie rarefatte della voce di Saadet Turkoz...nonostante l’algidità di alcuni passaggi il coraggio di questa sperimentazione rimane straordinario..e se Francesco Cusa riesce a strappare sonorità, lungo il suo irriverente ed autoironico contributo alle percussioni, anche da una bottiglia di plastica, Saadet ne spazia l’ardire con interventi surreali, arie ipnotiche, quasi caricature foniche, esaltate da una performance finale tutta fisica...”
GIORNALE DI SICILIA

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PRESS:CRISTINA ZAVALLONI OPEN QUARTET


CRISTINA ZAVALLONI OPEN QUARTET
When You Go Yes Is Yes
(Felmay/IRD)
RRRR
Gran bella razza, i curiosi: sempre lì, pronti ad annusare qualsiasi coserella e a giocarci fino al prossimo bagliore che coglierà la loro attenzione. Se poi, il curioso è anche un pizzico folle e tanto, tanto bravo, beh... allora si comincia a sconfinare su un altro termine: geniale. Cristina Zavalloni, bolognese, classe 1973, attitudine naturale al canto e studi al conservatorio Martini della sua città, è soprano sui generis e compositrice disinvolta. Tra un sodalizio con Louis Andriessen (non a caso in passato mentore di Cathy Berberian) e la messa in scena di "Act Of Beauty", che Michael Nyman ha scritto appositamente per lei dopo averla ascoltata a Londra, Cristina si propone con questa registrazione di un concerto tenuto ad Utrecht un anno fa. Nelle 11 esecuzioni è sostenuta e sospinta dal suo Open Quartet, mirabile formazione jazz secca e scapigliata, incisiva e mai autoreferenziale, che ne valorizza timbrica e passaggi vocali come raramente accade di ascoltare. Il repertorio è formato tanto dalla celebre "Youkali" di Weill/Brecht (dove traspare l'ammirazione verso la Galas), che da scherzi della natura quali "Le soleil et la lune" (monsieur Charles Trenet) o "Il ballo del mattone" (dopotutto Rita Pavone all'estero è ancora uno dei migliori biglietti da visita del pop italiano, chiedete a Morrissey), resi con levità e istrionismo. Il resto, frutto del sacco della Zavalloni, saltapicchia da un brillante vocalese in odor di Manhattan Transfer dei tempi migliori ("Afro Tin-Tin") alla bellissima, nervosa e cazzuta "Jim Song", il gioiello del disco.
Alessandro Bolli

Cristina Zavalloni @ Swingin' And Swimmin' Piscine Comunali - Bari, 4.08.05 _Foto: Fabio Ciminiera
_Vivacità. Tenacia e rispetto per il pubblico. Totalità. Particolarità. Sfortuna. Colori. Acqua.
Metatesto è, nella normale accezione delle pagine web, un artificio che consente alla pagina di avere una lista di parole, nascoste nella visualizzazione, che la rendano rintracciabile nei motori di ricerca; vale a dire, parole che vengono elencate per condurre verso il testo scritto. In questo caso, parole che conducono attraverso un'esperienza più che un concerto, visto lo sviluppo della serata.
Colori.
La luce variabile del palco, il contrasto con l'azzurro splendente delle acque delle piscine subito di fianco; il giubbino di pelle e il vestito chiaro, il rosso che illumina il contrabbasso e la batteria e il nero del pianoforte e del cielo, i lampi e gli aerei che hanno percorso il cielo alle spalle del palco.
Vivacità.
Per Cristina Zavalloni è impossibile star ferma: nell'intervista, nell'accogliere il pubblico nel gazebo, per la prosecuzione del concerto durante l'acquazzone, e, ovviamente, nell'esibizione dal vivo. Sfruttare il movimento costante, le pulsioni del carattere per gli effetti scenici, per l'utilizzo del diapason, per la creazione musicale e la conduzione dello spettacolo. La prova dell'Open Quartet, come è anche riportato dal disco, come visto nel soundcheck, purtroppo più lungo del concerto, e nell'apertura del concerto stesso, è quella di unire gli elementi visivi e teatrali alla musica, di sottolineare suoni, frasi e incroci di linee con sguardi, movimenti e sorrisi, di offrire una performance completa nella quale possano trovare spazio tutti gli elementi musicali.
Sfortuna.
Purtroppo il concerto è stato interrotto dalla pioggia. La seconda, simpatica quanto breve, parte del concerto si è svolta nel gazebo all'ingresso della piscina. Purtroppo un acquazzone si è rovesciato, senza pietà, su Bari dopo che Cristina Zavalloni e il suo Open Quartet avevano eseguito i primi quattro brani del programma. All'interno del gazebo, la seconda parte del concerto è iniziata con due perle della cantante, eseguite in solitudine mentre i tre musicisti attrezzavano, al meglio possibile, i loro strumenti; una versione di Goodbye Pork Pye Hat, con le parole scritte da Joni Mitchell; brani principalmente svolti con il supporto del contrabbasso di Antonio Borghini, l'intervento di Francesco Cusa, con rullante e charleston, e di Fabrizio Puglisi con una tastierina elettrica che, con le sue intonazioni particolari, ha causato un divertito gioco di scambi di suoni. La mancanza di amplificazione e il calore sprigionato dall'ambiente non hanno permesso una più lunga esibizione del gruppo.
Particolarità.
La cantante che si accorda con il diapason; l'ambiente delle piscine, con i suoi colori e i suoi brusii, con l'acquascivolo a fare da parete scenica; il bambino, seduto in prima fila, catturato dalla performance della cantante nella seconda parte, rapito dai movimenti e dalla voce; i vocalizzi della Zavalloni, prima del sound-check; lo sguardo di tutti rivolto al cielo, nel pomeriggio, nell'avvicinarsi alle sedie e nell'approssimarsi del concerto, nella speranza di allontanare le nuvole.
Totalità.
Open Quartet, When you go yes is yes, improvvisazione, jazz, influenze, citazioni, espressioni e recitazione. Parole, espressioni, implicazioni che danno il significato totale della performance. Quando ti decidi, devi andare, non puoi più tirarti indietro: è una frase di Jim Song, il brano che chiude il disco e che avrebbe chiuso il concerto, che riassume molto bene la filosofia del gruppo. Così come ne descrive bene le intenzioni il nome: apertura, voglia di aggiungere, coinvolgere, mescolare e dare una propria lettura a tutte quelle che sono le ispirazioni e le influenze dei quattro musicisti, dalle esperienze classiche della cantante ai lavori sperimentali di Francesco Cusa. L'atteggiamento del gruppo è quello di inserire, travolgere, restituire in forme nuove o paradossalmente vicine all'originale, di travagliare ed elaborare il materiale sonoro che investe: un materiale che si muove sugli aspetti ritmici di Afro Tin-Tin e sulla poesia surreale de Le Soleil et la Lune, sulla recitazione e sul groove di Jason e sulle esplorazioni brasiliane dell'ultimo brano precedente l'acquazzone... e che ha toccato la Sardegna, Mingus e l'opera lirica nel gazebo, Rita Pavone nel disco e il Bolero di Ravel nel sound-check.
Acqua.
Sarebbe bastata quella delle piscine... e, invece, è venuto giù il finimondo...
Fabio Ciminiera - Jazz Convention year 2005

Recensione di The Assassins "Love" a cura di Stefano Radaelli per "Tracce di Jazz" - il:2015-11-07

http://traccedijazz.it/index.php/recensioni/1561-gli-“assassini”-colpiscono-ancora

Gli “assassini” colpiscono ancora.

Alla sua seconda uscita discografica, The Assassins, quartetto guidato dal batterista catanese Francesco Cusa, si conferma come una delle realtà più interessanti e positivamente provocatorie nel panorama della musica creativa italiana. Nonostante i cambiamenti in organico, i due dischi possono essere visti come due fasi distinte di un percorso artistico coerente, orientato alla ricerca di una proposta originale.

Alla sua seconda uscita discografica, The Assassins, quartetto guidato dal batterista catanese Francesco Cusa, si conferma come una delle realtà più interessanti e positivamente provocatorie nel panorama della musica creativa italiana. Nonostante i cambiamenti in organico – Giulio Stermieri prende il posto di Luca Dall'Anna all'organo Hammond, mentre al sax contralto Cristiano Arcelli sostituisce Piero Bittolo Bon – i due dischi possono essere visti come due fasi distinte di un percorso artistico coerente, orientato alla ricerca di una proposta originale, mai scontata e impietosa verso ogni cliché.
“The Beauty and the Grace” (Improvvistaore Involontario, 2012) facendo leva anche sull'estetica grindcore della copertina e delle note letterarie associate ai brani, brillava soprattutto sul versante della “pars destruens”, offrendo all'ascoltatore un concentrato esplosivo di accostamenti inaspettati, di atmosfere sulfuree (grazie anche ad un raffinato utilizzo dell'elettronica da parte del trombettista Flavio Zanuttini) e di riferimenti musicali eterogenei – dal jazz alla drum'n'bass, fino ai tala della musica indiana – impiegati e miscelati con sapienza e rigore.
“Love”, invece, si ascolta quasi come un'unica suite, in cui la ricerca di un linguaggio compositivo ed improvvisativo originale sembra tradursi nello sviluppo, dalla prima all'ultima traccia, di un messaggio musicale unitario, perfettamente organico: alla “pars destruens”, con la sua collezione di frammenti incandescenti di un universo musicale e culturale fatto esplodere senza pietà sotto gli occhi (le orecchie) dell'ascoltatore, segue così la “pars costruens”. Gli ingredienti stilistici sono più o meno gli stessi del disco precedente, ma l'intento creativo sottostante sembra orientato alla costruzione di un universo estetico, più che alla sua demolizione controllata.
A marcare la differenza fra le diverse ispirazioni evocate dai rispettivi dischi è anche l'intervento di due sassofonisti, Piero Bittolo Bon e Cristiano Arcelli, che figurano senza dubbio fra i migliori contraltisti attivi oggi in Italia, ma che offrono anche due approcci allo strumento e all'improvvisazione molto diversi. Lo stile di Bittolo Bon – influenzato, fra gli altri, da Steve Coleman e Tim Berne – deve la sua originalità ad una vena luciferina e iconoclasta che si presta molto bene all'ironia destrutturante e al gusto per il rovesciamento dialettico che animano il primo disco. Cristiano Arcelli, dal canto suo, è perfettamente a proprio agio con l'ispirazione più costruttivista del secondo, attingendo ad una vena lirica e offrendo rimandi alla tradizione – elaborati tuttavia in modo sempre originale e personale – che non mancheranno di suscitare l'approvazione anche degli appassionati di jazz più ortodossi.
Constatata la vocazione più “costruens” del secondo disco, resta tuttavia da capire in che genere di universo conduca l'ascoltatore, e, soprattutto, quale sia la natura di questa opera costruttiva.
“The Beauty and the Grace” ci proiettava in un immaginario da incubo: compassati autori di jazz tradizionale che sfogano le frustrazioni del mestiere compiendo efferati atti di cannibalismo, coperte elettriche che carbonizzano impietosamente i loro ospiti, bevande gassate ad alto contenuto di glucosio spacciate per panacee contro il junk food ecc.
Nonostante il titolo e la grafica ironicamente sdolcinata della copertina, tuttavia, anche “Love” è tutto salvo che un omaggio ad un'idea appiattita, banale o edificante di “amore” (l'ironia nei confronti dell'omonimo disco di Allevi è evidente) e non ha neppure molto senso interpretare il titolo nei termini di un generico e non meglio definito “amore per la musica” (che un musicista o un compositore “amino” la musica che fanno, dopo tutto, non è affatto una sorpresa). Tutto appare anche qui molto più sfumato, complesso e contraddittorio – e non ci si potrebbe aspettare nulla di meno da un navigato agitatore culturale come Cusa.
Alcuni passaggi del disco sembrano evocare processi alchemici, danze di elementi primordiali, o, come nell'incastro poliritmico di “Intricate Corvai”, ispirato ad un tala indiano, il computo di una sorta di matrice della creazione da parte di una qualche entità soprannaturale dedita all'instancabile manipolazione della materia.
A fungere da collante di questo universo inquietante e precario è quindi certo una qualche forma di “amore”. Ma di che genere di amore si tratta? A giudicare dalla voce infantile, non priva di una vena di compiaciuto sadismo, che ripete in modo insistente e trasognato la parola “love” nell'ultima traccia del disco, sembra quasi di trovarsi alle prese con quel genere di amore che solo un demiurgo capriccioso e sociopatico – assimilabile, per intenderci, al demiurgo della tradizione gnostica – potrebbe provare nei confronti della sua creatura imperfetta, disarmonica e irrazionale. Un amore al tempo stesso sincero e crudele, ingenuo e spietato, totalizzante e disperato.
Insomma: l'universo nel quale The Assassins ci proiettano è un universo tutt'altro che pacificato, tutt'altro che privo di contraddizioni o di frizioni. È, forse, un riflesso fedele del mondo in cui viviamo. Ma proprio nell'esibizione di queste contraddizioni e frizioni, così come delle oasi di bellezza asimmetrica e zoppicante che lo punteggiano, risiedono la freschezza, l'originalità e l'attualità di lavori come questo.



Una mia intervista a cura di Donatello Tateo per "Tracce di Jazz" - il:2015-10-27

Abbiamo incontrato il batterista e compositore catanese, Francesco Cusa, che alterna la professione di musicista a quella di scrittore di novelle. Ha collaborato con poeti e performers d'ogni tipo come P. Fresu, Zu, Mohammed El Bawi, Natalia M.King, C. Zavalloni e il collettivo di scrittori Wu Ming. Impegnato con il progetto di killeraggio comunicativo "Improvvisatore Involontario", è leader del collettivo "Naked Musicians".
Francesco CusaL’incontro con Francesco Cusa è avvenuto in più riprese : il 14 ottobre scorso presso il Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli dove è Docente di Batteria (così come al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce); il 13 ottobre al Circolo Gramigna a Bari, per assistere all’esecuzione del suo progetto “Solomovie” , sonorizzazione- rimusicazione dei film muti “Sherlock Jr.” di Buster Keaton e “Aggiudicato, Venduto!” di Harry "Snub" Pollard, in cui combina live drumming con (per sua stessa definizione) “una sorta di audio-remix composition”; il 30 settembre , presso lo stesso Conservatorio di Monopoli dove si è assistito al suo workshop/concerto di conduction “Naked Musicians” dirigendo l’Hocus Pocus Orchestra (ha pubblicato un libro di conduction scaricabile gratuitamente); nell’opening set quella sera ha eseguito un duo di improvvisazione con Gianni Lenoci con il quale, il 25 giugno, ha tenuto una seduta di registrazione (“52:30”) presso il Waveahead Studio a Monopoli per un disco di futura pubblicazione. Oltre una generosa attività concertistica, recentemente sta presentando in vari luoghi il suo libro di racconti “Novelle crudeli", (Eris Edizioni), illustrato da Daniele La Placa; una versione in CD audio sarà prossimamente pubblicata per Phobos. In uscita anche una raccolta di aforismi “Ridetti e contraddetti” (Chartago).Cura regolarmente la rubrica di recensioni cinematografiche "Il Grandangolo No!" per la rivista "Lapis" e la rubrica "Il Cattivissimo" per la rivista settimanale "Cultura Commestibile". Ha pubblicato quest’anno il CD “Love” con il gruppo The Assassins (Improvvisatore Involontario). Nel 2016 in occasione dei suoi cinquant'anni (luglio 2016) usciranno due cd celebrativi con la sua band "The Assassins", uno per Musica Jazz che sarà registrato all'ExWide"" di Pisa (marzo) e un'altro per Jazzit (luglio) dove verrà riproposta la registrazione del live al festival di Collescipoli 2015. E’ imminente la pubblicazione del disco in duo, denominato Frank Sinapsi, con Enrico Merlin. Buona “visione”.

Tdj : Da quando hai cominciato la prassi di conduction nei workshops “Naked Musicians” quale personale evoluzione hai avvertito e quali risposte hai ricevuto dal comportamento dei partecipanti che si sono succeduti ?
F.C: Ho cominciato a fare conduction partecipando ad alcuni concerti con Lawrence Butch Morris e registrando due dischi con lo Specchio Ensemble di Domenico Caliri che è stato uno dei primi a farla in Italia (“Suite No. 1 per quintetto doppio” del 1995 e “Porcyville” del 2003, entrambi per I Dischi di Angelica - ndr). Poi ho elaborato un mio metodo che, ovviamente, si discosta abbastanza dalla conduction di Morris per l’utilizzo di segni e simbologie personali che nel corso degli anni sono andato sempre più ad ottimizzare. Se non è espressamente richiesto un certo grado di preparazione, per esempio con studenti di Conservatorio o per ensemble costituito, va ricordato che la conduction di solito è aperta a tutti, anche a principianti e a persone che non hanno alcuna esperienza di tipo musicale o performativo. In generale la risposta è sempre positiva perché è un metodo che comunque consente a chiunque di esprimersi liberamente con i propri mezzi; i risultati differiscono certamente in base al grado di apertura mentale e di bravura dei musicisti, ma paradossalmente questo è secondario, nel senso che, in fondo, il percorso che si comincia è già in sé un processo “iniziatico” volto a modificare un certo tipo di atteggiamento.
In questo senso io mi pongo piuttosto sul versante ricettivo degli impulsi, rielaborandoli e restituendoli “geneticamente modificati” (ride). E’ successo, ad esempio, nel “Vocal” Naked Musicians, concepito per 7 cantanti e che ho poi pubblicato su disco (“Flowers in the garbage” 2013 su Improvvisatore Involontario- ndr).

Tdj : Nella conduction, e più in generale nella ritualità musicale, esiste ed è individuabile un confine tra esperienza individuale e collettiva?
F.C. Possono verificarsi rari ma effettivi casi di telepatia, di empatia, dovuti o a un certo tirocinio o a una esperienza (penso alla comune di Sun Ra di qualche decennio fa); oggi, è quasi utopistico pensare che possa realizzarsi un reale processo simbiotico tra musicisti, essendo la musica pratica scissa da una quotidianità ritualistica. Al di là di certe eccezionali esperienze, a volte comunque si creano “magie”, alchimie peculiari in cui l’individuo scompare e viene “assorbito” all’interno dell’ensemble. Nel caso delle conduction questo è ancora più evidente perché, se è vero che ci sono tante individualità in gioco, la disposizione a semicerchio che si viene a creare serve ad abbattere certi schermi. Come ho scritto nel mio metodo “Naked Performers" (scaricabile gratuitamente qui), l’obiettivo ideale della mia conduction è la scomparsa del conductor, così come per una città ideale è logico prevedere la scomparsa di semafori e vigili urbani.

Tdj : Riguardo al tuo progetto di sonorizzazione di film muti “Solomovie”, quale dinamica si innesca nel tuo approccio musicale in relazione allo stimolo visivo dell’immagine cinematografica?
F.C. : Sicuramente l’approccio cambia completamente a seconda del tipo di film e se si tratta di suonare su un film che vedo per la prima volta sul set o se invece questo è stato preventivamente concepito, pensato, strutturato per una sonorizzazione. In generale, sia con la musica che con il cinema o la letteratura, nonostante le diverse modalità espressive, ho comunque un approccio identico e ritrovo sempre me stesso in qualche modo. Il cinema è una mia grande passione e i film che ho musicato nascono quasi sempre dalle emozioni della visione.

Tdj: Puoi spiegare il tuo concetto di euritmia - generalmente definita “l’arte di muovere l corpo, particolarmente gli arti, per esprimere il significato interiore di musica e discorso” - e come ciò interviene nel tuo fare musica ?
F.C.: Mi viene in mente in particolare una versione molto bella del “Naked Musicians” realizzata esclusivamente per danzatori; lì non c’era musica e il gesto di conduzione rivolto ai danzatori veniva restituito plasticamente, una vera e propria coreografia. Posso dire che essa è presente in tutto ciò che faccio, e nella mia attività difficilmente c’è qualcosa di poco euritmico, nel senso che miro all’insieme di relazioni tra gesto, idea, atto, potenza, performance. Cerco di raccogliere gli stimoli dai differenti luoghi in cui si svolge una performance. Penso che sia qualcosa che generalmente riguarda più il sentire che il pensare. In questo senso è stato bellissimo il progetto IMET con i danzatori Melaku Belay e Jennifer Cabrera, e la cantante Gaia Mattiuzzi. La nostra esperienza etiope è stata in questo senso illuminante..

Tdj : Si tira in ballo facilmente il “virtuosismo” per il tuo percussionismo. Ma il virtuosismo certamente non si riduce al funambolismo atletico e sorpassa la stessa abilità tecnica che, è noto, spesso mette in crisi la creatività. Cos’è la “virtù” per te?
F.C.: In questa fase della mia vita artistica, virtù è riuscire ad ottimizzare tutto il bagaglio di conoscenze, anche i difetti e le mancanze, in un’idea più armonica e di composizione e di performance. Devo dire che effettivamente sento che sto cambiando in questo senso rispetto al passato. C’è più distacco, intendo dire proprio il distacco dall’oggetto estetico, da ciò che si ama e che si è realizzato. Certi risultati, per ragioni di vissuto, difficilmente si ottengono ad un’età che non sia matura. Salvo per i pochi fortunati, che possono dedicarsi esclusivamente alla propria arte, (come dovrebbe essere) il nostro mestiere è vessato dalla necessità di “vendersi” (come si fosse merce inerte), o comunque di mediare (e dimenarsi) in un continuo percorso di autopromozione delle proprie attività, in una sovraesposizione che implica comunque un darsi. La virtù sarebbe riuscire a trovare una soluzione a tutto questo, ma siamo pervasi dal feticismo.

Tdj: Nella prassi improvvisata, della composizione istantanea, quanto si differenzia il puro esercizio pratico quotidiano, allo stato grezzo sperimentale, dalla performance pubblica ? La sperimentazione in pubblico assume secondo te un valore che lo eleva a dignità artistica, a discapito di un’apparente gratuità?
F.C.: Parafrasando alcuni argomenti della fisica quantistica, laddove si sostiene che “l’osservatore modifica l’evento”, trovo normale che nel momento di studio ci si può permettere tutta una serie di cose, in un reale rapporto intimo e privato con la musica che non deve essere reso pubblico. Ed è anche inevitabile (e senza contraddizione) che sul palco, per quanto si possa essere concentrati, quella cornice influenzi la performance; l’osservatorio dell’audience può arrivare ad amplificare e persino a far emergere ciò che nel privato non sarebbe mai venuto fuori. Anche nel caso della “lotta” con un pubblico chiassoso si palesa un altro tipo di concentrazione. Gli stessi spazi della performance riescono a modificare la musica e sto pensando ora alle catacombe delle Latomie dei Cappuccini a Siracusa, un luogo bellissimo dove ho recentemente suonato (il 9 ottobre scorso, nel Paolo Sorge Trio, alla 10°edizione di Labirinti sonori, Siracusa Jazz Festival 2015 : “Music for heart and mind”, organizzato da Stefano Maltese - ndr).

Tdj : Nella pratica improvvisativa molte variabili intervengono per non riuscire mai impeccabile; l’urgenza e l’aleatorietà sono accentuate,i climi sono di volta in volta intermittenti, intersecanti, o coincidenti, ecc. Mi appare realizzarsi un gran paradosso : quello per cui proprio da una “esperienza libera da limiti” il performer accetta e comprende concretamente l’”esperienza del limite” e dell’imperfezione; e da qui s’innesca il movente che poi spinge a espandere continuamente le tecniche strumentali ed extramusicali in questa prassi…
F.C.: A prescindere dall’ambito esecutivo dove non è consentita l’imperfezione “ortografica”, l’errore deve (può) essere un punto di partenza, e Miles Davis ce lo insegna, L’errore nell’improvvisazione in genere non è contemplato, è semplicemente un punto di vista. Tutto è lecito in una nuova grammatica perennemente sul farsi. In questi casi si può solo far affidamento al gusto, alla fascinazione, alle empatie. Ma l'esprimersi liberamente non è garanzia di buona musica, l’esito può essere anche molto noioso.

Tdj: Sull’educazione al gusto : in qualità di docente dove cerchi di condurre i tuoi allievi ? Per chi la musica la produce, il gusto implica la sincerità verso gli obiettivi comunicativi, espressivi, estetici cui si aspira ?
F.C.: Oltre gli aspetti tecnici necessari, cerco per quanto possibile di affinare il gusto con consigli di ascolto e anche tramite la stessa prassi: i Greci definirono con “téchne" ciò che comprende l’insieme di tecnica e creatività. Invito tutti ad esprimersi senza attendere la fine di un percorso di studi, ma questo non viene recepito da molti; è qualità rara. Viceversa è quasi spontaneo cominciare a dipingere, suonare, scrivere racconti, comporre, ecc. Tuttavia ritengo che non si possa “insegnare” il gusto.

Tdj: Dalla parte del fruitore, invece, confidi nella sua capacità spontanea di abbandono all’immaginazione ri-creatrice della musica che riceve ?
F.C.: Assolutamente sì. Oggi in troppi si cimentano a fare questa cosa che è chiamata “arte” (la maledetta nosologia che ci massacra). Se da una parte è certo un bene, dall’altra ciò è sovente frutto di situazioni imbarazzanti, iperboliche, ipertrofiche. Tornare alla “qualità” dell’ascoltatore, come destinatario non passivo della fruizione è il tema centrale. La cultura non è esclusiva di artisti musicisti e pittori. Il fruitore è una vera risorsa, il pubblico è la nostra ragione di esistenza. La mia non vuole essere una critica bacchettona, anche se In Italia oggi vedo grandi smanie arrivistiche in ogni settore. Questo fa un po’ parte del momento storico che per il momento ci riserva parecchie sintomatologie preoccupanti. In genere comunque presto più attenzione ai pareri dei non addetti ai lavori. (ride)

Tdj: Volevo esattamente chiederti questo a seguire, e in parte hai già risposto. Quale attitudine (più che competenze) quindi trovi necessaria da parte di ciascuno degli “operatori” musicali attivi, ai vari gradi - dai produttori, ai formatori fino agli intermediari di ogni ordine - affinchè la cultura musicale nutra l’evoluzione della civiltà del nostro tempo ?
F.C.: La situazione italiana, in ogni ambito, è realisticamente anomala, schiacciata dal corporativismo e dal nominalismo. Non che altrove si parli di Eden, ma c’è un limite di decoro che non andrebbe mai violato. La parola topica non può che essere “meritocrazia”, quale criterio e regola per il libero accesso alle risorse (per quanto scarse). L’operatore culturale dovrebbe essere “militante”, un esploratore in caccia di talenti e realtà. L’Italia è un paese tremendamente esterofilo, poco incline alla valorizzazione dei propri “tesori”, a differenza di ciò che accade ai nostri colleghi, per esempio, in Francia, Germania, Svizzera, dove c’è certamente più rispetto verso la tutela degli artisti nazionali. Su argomenti di questo tipo, rivolti ai nostri soliti referenti, accade l’assurdo d’essere tacciati di vittimismo. La parola chiave rimane “tutela”: di templi, musei, teatri, artisti.

Tdj: Per la conclusione mi hai suggerito un tema cui hai già accennato e vorrei tu precisassi: il distacco dell’artista, nel suo ruolo, dall’”oggetto” artistico.
F.C.: Non riesco a concepire un artista che non sia militante. In Italia, per esempio nell’ambito del jazz, non abbiamo avuto in questo senso una tradizione di veri grandi maestri. Ci sono, certo, alcuni ottimi musicisti, ma un grande maestro è colui il quale riesce al contempo ad essere distaccato dall’oggetto estetico che produce. Questa è celebrazione della Bellezza. Questo era Coltrane. Tutto ciò non nasce a caso, bensì è prodotto di una “scuola”, di un “milieu” culturale di un certo tipo. Poi, certo, anche il “vissuto” e la “strada” possono diventare “maestri”. Ad esempio, trovo assurdo che molti eccellenti musicisti abbiano smesso di suonare il pianoforte perché “non potranno mai suonare come Bill Evans …”.
Ecco, questo è esattamente ciò che l’arte, la musica, il jazz non dovrebbero mai comunicare. La musica è arte del donare, nel suo significato più intimo e profondo.

L’indagine di un universo estetico è sempre una lotta (e un’ipotesi). Già solo per una singola individualità e la sua opera.
La lotta è contro l’uniformità dell’interpretazione.
La complessità fa paura perciò si (pre)tende ad economizzare in modelli univoci e conclusivi, invece di dialogarvi.
La capacità ermeneutica massima possibile è soltanto una probabile misura di una mobile ed evanescente circonferenza di una realtà continuamente in trasformazione, quindi … “mise en abyme” …
Questo ribadimento si è reso ancor più necessario nella “circoscrizione regionale” della “musica del jazz” e, sulle tracce della estesa personalità di Francesco Cusa, questa necessità è ritornata prepotente.