MIa ultima recensione d Moebius di Kim Ki-duk (9)
Film sublime. Un film sul Buddha (con buona pace di chi blatera a vanvera su questa ultima opera di Kim Ki-duk). Questa la centralità di “Moebius”, storia di una passione e di un cammino verso la “liberazione”.
Parliamo dunque di Illuminazione, di superamento del limite corporeo. La fortuna del grande regista coreano è quella di essere figlio di un contesto culturale in cui lo scontro tra tradizioni millenarie e presente ipertecnologico è generatore di una sorta di mitopoiesi contemporanea.
In Moebius, la questione edipica viene enunciata e messa in scena senza alcun gioco di rimandi, nella sua rappresentazione scarnificata, anti-psicologica, che rivela fin dalle prima scene il disegno progettuale del regista, ovvero quello di realizzare un’opera catartica, edificante. Proprio in virtù di questa didascalica narrazione, che a noi risulta essere per molti tratti comico-grottesca (da qui le risatine in sala), è possibile penetrare fino alle radici della teatralizzazione, della cruda messa in scena della tragedia. I personaggi sono essi stessi archetipo, mito incarnato, eroi del nostro tempo. Essi iscrivono le proprie gesta in una cornice neutra della nostra contemporaneità, in un divenire a-storico, ciclico di mutazione perenne. Il tema dell’incesto è del resto tratto comune alla pornografia nipponico-coreana, nello stereotipo “passivo” della madre che, tra tormentate resistenze, finisce col cedere alle avances del figlio (il padre è quasi sempre o dormiente, o inquadrato di spalle nell’atto del leggere o del mangiare).
Che, del resto, ci trovassimo di fronte a un film a tesi lo si era capito in dal titolo: “Moebius” rappresenta un nastro di superficie geometrica non orientabile, un paradosso che qui simboleggia l’eterno ritorno dell’incarnazione del Buddha, nel rapporto di reciprocità tra madre e figlio (nel cinema, oltre all’ottimo film “Moebius” dell’argentino Gustavo Mosquera, questa “tecnica” è stata usata soprattutto da David Lynch).
Da questa prospettiva ogni giudizio morale – ogni tabù – rappresenta un sigillo (necessariamente) violabile: nell’adozione della violenza e del dolore, nella castrazione fallica e nell’umiliazione del potere del maschio, vengono destrutturati i capisaldi della nostra società globalizzata, le ipocrisie della rimozione perenne, del distacco traumatico dell’uomo contemporaneo rispetto alla natura ed agli istinti.
Lo strepitoso finale mette fine (dovrebbe) alle confusioni interpretative dello spettatore, offrendo uno squarcio di bellezza sconvolgente che lega e trascende l’inizio e la fine del film: l’atto devozionale della madre nei confronti del figlio (“uccidere il Buddha”) è simbiosi ma anche riconoscimento del divino, ciò che spinge santi, eretici e pazzi a compiere atti cruenti in virtù di uno scopo aulico.
Una trottola percorre la striscia di Moebius in senso orario e si ritrova una volta giunta al punto di partenza a ripercorrerla in senso antiorario. Così lo sconcerto iniziale dello spettatore trova modo d’acquietarsi, nella de-oggettivizzazione di ogni concetto “pertinente”, nella sospensione del giudizio censorio. Ogni atto – il più assurdo ed efferato – corrisponde dunque ad un disegno trascendente che non ci comprende in quanto segmenti corporei di irrelata esistenza: A-B/nascita-morte.
La violenza, lo stupro, l’evirazione come fattori di sublimazione, sono gli elementi fondamentali che Kim Ki-duk utilizza per affermare che senza la mortificazione e il trauma nulla è consentito alle coscienze deboli delle nostre società degli agi. La mortificazione fallica del figlio-padre, funzionale al percorso tormentato che porterà alla liberazione, è dunque parte della visione, di un percorso di purificazione che coinvolge la triade familiare.
Nel percorso ciclico, tendente alla fine del processo di trasmigrazione dell’anima, sta il senso dell’atto devozionale della madre nei confronti del figlio eterno.
“…perciò nessun anima è legata o liberata né trasmigra. Non è altro che la natura, con i suoi molteplici stadi, ad essere legata o liberata o a trasmigrare” (Le Strofe del Samhkya).
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