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Francesco Cusa - Official Website - Mia recension di "Django" di Quentin Tarantino (10)

Mia recension di "Django" di Quentin Tarantino (10)

2013-01-23

"God bless America!". E noi tutti diciamo grazie a questa terra che ha generato uno dei più grandi registi della storia del cinema. Che meraviglia questo "Django", e si badi che non era facile dopo un film epico come "Bastardi senza gloria".

Tre ore di tensione pura, sublime e cristallina. Come al solito in Tarantino si intrecciano grovigli di strade, citazioni e rimandi, ma il risultato non è mai capzioso, contorto, "difficile". Tarantino ha messo a fuoco la legge fondamentale dei grandi maestri del cinema: quella di tenerci inchiodati alla sedia senza un respiro. Da qui si parte, il resto è conseguenza. Ormai possiamo affermarlo, lui è il regista dell'attesa, della tensione che corre sul filo di lama.

Ogni momento del film, di ogni suo film (vogliamo ricordare la scena iniziale di "Inglorious Bastards", con i tedeschi che perquisiscono la baracca e quel gigantesco Cristopher Waltz nei panni del gerarca che viene rivelato per la prima volta al grande pubblico?), è un microcapolavoro di suspance. Non sai mai cosa aspettarti, la cura del dettaglio può essere talvolta insostenibile: spillare e "tagliare" la birra, suonare l'arpa possono rivelarsi attività metafisiche, distillati di tortura silente. L'esplosione splatter, in questo senso, rappresenta nel cinema di Tarantino la catarsi necessaria, l'acme di una nevrosi scarnificata e messa in scena: dunque insostenibile.

Tutti i personaggi, come in De Sade, son caratterizzati infatti all'estremo, rappresentano tipologie umane à la Balzac; questa volta è il caso del Django schiavo che si riscatta e libera o del cacciatore di taglie Shultz, quell'altra quello del colonnello nazista Hans Landa o del tenente Aldo Raine. Poco importa. Tarantino è il regista (per fortuna nostra) meno introspettivo - in senso psicologico - che si conosca. Cultore del Mito e del suo eterno dipanarsi, egli è il Tarzan nella giungla citazionistica di segni, palcoscenico da lui concepito per esplicitare il prolasso di Significato e Significante. In questo senso le citazioni sono da intendere in chiave parassitaria: Tarantino "omaggia" il cinema italiano come un branco di piranha la carcassa del tonno. Di Caprio fa scempio del teschio del suo antico servo - fino ad allora gelosamente custodito come un amuleto - e Tarantino polverizza i contenuti della nostra cinematografia minore, rosicchiando fino ai bordi la necessaria paludata "cornice", che diviene forma e contenuto, struttura e sovrastruttura, facciata da saloon senza interni, esoscheletro di "western all'italiana".

Tuttavia, al pari di De Sade, vi è come un'ossessione etica in Quentin, magari distorta e rovesciata, ma pur sempre etica. In questo senso il suo ultimo cinema sembra essere teso alla "riscrittura" in chiave pulp di una fantasmagoria della storia; vicende e personaggi di dispongono in funzione di una redenzione solipsistica, genetica, d'elevazione. Il grottesco diventa paravento e guscio atto a preservare il flebile battito di un cuore neonato e sincero, chè al fine ad una società ed a un'America migliore tende tutta l'estetica inconscia del suo cinema. I colpevoli fanno quasi sempre una brutta fine, ed i "buoni" ottengono un riscatto fuori dallo schermo. E' il caso del corpo abbandonato del povero Shultz che viene idealmente consegnato allo spettatore; così relegato di spalle e senza gli onori di una degna sepoltura, anch'esso esploderà come tutto il resto nell'atto finale del fuoco purificatore (vedi incendio nel cinema colmo di nazisti in "Ingloriuos Bastards"), forse a testimoniare che il futuro dengo sarà dei Django, ovvero dell'eroe Sigfrido che non conosce la Paura.
Comunque la leggiate, un film eccezionale.

Francesco Cusa