mia recensione di "Moonrise Kingdom" di Wes Anderson (7)
Un film "delizioso". Wes Anderson del resto ci ha abituati bene. Un'operazione orchestrata alla perfezione dal regista che trae spunto dall'opera del compositore inglese Britten, "Variazioni su un tema di Henry Purcell", per realizzare questo Moonrise Kingdom. Ogni scena è centellinata e costruita sulle similitudini sinestetiche tra cinema e musica, intere carrellate di piano sequenza introducono personaggi e scene sulla falsariga delle presentazioni degli strumenti nelle variazioni su tema. Un omaggio colto e raffinato agli anni sessanta, il 1965 per la precisione, con un campionario impressionante di oggettistica vintage, talmente ricco da rasentare il preziosismo, a seguito dei richiami compulsivi e maniacali al modernariato di quegli anni. Per non dire della panonamiche fisse, fotografiche, iterative, che rimandano all'immaginario tolemaico del microcontesto della fiaba. I personaggi si muovono entro coordinate dettate dal canovaccio musicale, generando il paradosso tipico dello straniamento, epifenomeno caratteristico, ad esempio, del musical. Proprio grazie a questa aderenza al progetto sonoro è la figura retorica dell'analogia a farla da padrone, colorando i personaggi in chiave comico-grottesca, cosa del resto che è prerogativa e marchio di fabbrica di tutto il cinema di Anderson.
Ma allora cosa non mi ha convinto? Perché sostanzialmente mi sono annoiato nonostante quel profondo senso di compiacimento estetico ed estetizzante che mi teneva mollemente adagiato alla poltrona? (e per forza, come si fa a non rimanere estasiati di fronte a certi caratteri fin dai titoli di testa? o a Sua Maestà il super 8?). Probabilmente la causa sta nel guanto di sfida lanciato da Anderson tramite questa operazione intellettuale e rigorosa che non ha nulla di candido (e qui sta uno dei principali inceppi del film a mio avviso), questo voler implicitamente dichiarare gli ambiti e le coordinate del suo cinema tramite un film che è fin troppo autocompiaciuto per non essere manifesto.
La sua opera più sincera è e rimarrà sempre i "Tenenbaum", che rappresenta l'apogeo del suo cinema descrittivo. In Moonrise Kingdom pare di stare dentro a un film di Kaurismaki; c'è qualcosa di "terribilmente già visto", un deja vu che mi ha sconfortato all'uscita della sala, qualcosa di vecchio, ma di dannatamente ben confezionato.
Tutto questo, Anderson ce lo vomita alle spalle, nella presunzione di un cinema che vorrebbe essere nuovo ma che invece puzza maledettamente di cadavere sotto la cipria e il belletto. Un film che consacra la maestria del regista texano, al contempo mostrando tutti i limiti della sua estetica - fin troppo programmatica ed introflessa -, limiti che rischiano di connotare i suoi lavori quali sterili, per quanto sofisticati, esercizi di stile.
Francesco Cusa
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