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Francesco Cusa - Official Website - Mi recensione di "Amour" di Michael Haneke (10)

Mi recensione di "Amour" di Michael Haneke (10)

2012-11-18

"Amour" di Michael Haneke (10)

Silenzio in sala. Scorrono i titoli di coda. Inesorabili nel mutismo dell'assenza di una qualsiasi traccia di sonoro. La gente si alza dalle poltrone con cautela, cerca di fare meno rumore possibile. Frusciano i cappotti, scalpita qualche tacco, sommessi colpi di tosse fra le teste basse: nessuno parla. Fuori, nella gelida aria padana, un tizio barbuto tira su una bella boccata d'aria malsana. Haneke è uno dei più grandi registi viventi. Lo è ancor di più dopo questa prova maestosa di grande cinema.
Cinema assoluto: senza se e senza ma.

L'interno di una casa francese. Due anziani coniugi, insegnanti di musica, affrontano ciò che rimane delle loro vite con la dignità e la compostezza di un legame saldo e consolidato. Poi giunge la malattia, e il marito - un meraviglioso Jean-Louis Trintignant - si ritrova ad avere a che fare prima con la perdita del decoro e poi con l'orrore della dissoluzione del corpo.

La camera di Haneke riprende da ogni angolo, inesorabilmente, "documentaristicamente". Nessuna analisi sociologica sul tema dell'eutanasia, nessuna patetica svolazzata pindarica sul tema della morte e della vita. Niente di tutto questo per nostra somma ed immensa fortuna.

Ma neanche quella immonda cancrena del nudo e crudo realismo, quella pedissequa "rappresentazione" di tragedie domestiche e sociali alla Ken Loach. Haneke appartiene a quella rara genia di artisti in diretta simbiosi con la sacralità, assieme a Lynch, Bataille, De Sade, Von Trier, Kubin, Coltrane e compagnia bella.

L'universo chiuso di questa coppia, chiuso ai figli, agli amici, ai conoscenti, si consuma fino ad implodere all'interno delle mura dell'appartamento, nella muta e folle compostezza del dolore privato. La casa diventa così la tomba-mausoleo di una storia senza protagonisti, o quantomeno di una storia senza più protagonisti. La testimonianza della lettera scritta da Trintignant alla figlia, poco prima di sigillare porte e finestre, ha tutta la valenza - almeno per noi fruitori - dell'atto estetico, unico ed esclusivo fondamento di un'arte che possa ancora dichiararsi tale, quale quella di tutta l'opera cinematografica di Michael Haneke.

Ad un certo punto del film, accade qualcosa che, in quel determinato contesto, prende a scorticare l'anima: riprese ravvicinate di quadri impressionisti di casa. Un frammento. Pochi attimi. Quelli sufficienti a precipitarci nell'assurdo e immane baratro dell'irrazionale fattosi cinema.

Un capolavoro assoluto.

Francesco Cusa