La mia recensione di GIANNI LENOCI "A Few Steps Beyond" per THE NEW NOISE
GIANNI LENOCI, A Few Steps Beyond
Che la vita espressiva musicale di Gianni Lenoci potesse ancora regalarci il dettaglio prezioso del suo ultimo concerto dal vivo, lo interpreto personalmente come un segnale mistico. Il magnetismo che regola la dialettica sofferta e sublime di questo concerto pare diluirsi nel vuoto infinito determinato dalla sua assenza. Rimane la musica e poi il contrasto difficilmente sostenibile tra la prorompenza fisica del suo pianismo e la drammaturgia del suo silenzio. Eppure, dall’ascolto di A Few Steps Beyond, a me sembra di rivedere le sue sembianze, e quasi mi riappare la sua figura liquida, evocata sonoramente da quell’inconfondibile suo modo di approcciare lo strumento, dal simbolismo tattile delle escursioni fuori dalla tastiera in “Ida Lupino”, da quella peculiare maniera di deframmentare gli standard e di reificarne lo spirito originario (un anelito volto a scardinare l’episteme, la memoria storica del jazz dal suo stesso asse).
Gianni Lenoci reinventa lo standard e lo fa seguendo un processo inverso rispetto alla bulimia performativa del jazz odierno, sovente tesa a sfruttare le griglie del canovaccio come pretesto per pantagrueliche avventure solistiche. Con Gianni Lenoci le composizioni di Ornette Coleman, Paul Bley e Jerome Kern vengono ricondotte alle radici del presente, rianimate e immesse nel fluido vitale intimo del jazz, dopo un lavoro di scavo che conduce all’essenza dell’Incomunicabile, alla singolarità che rende ogni composizione unica e indecifrabile.
Pochi pianisti hanno la capacità di presentare e al contempo tenere insieme tutti gli elementi messi in scena in un concerto improvvisato di piano solo, di annunciarli per poi farli progredire nel continuum della performance. Gianni Lenoci riusciva a farlo con naturalezza, forte di una conoscenza enciclopedica della storia della musica e di un approccio scientifico allo strumento che ben si amalgamava con l’habitat dei suoi numerosi demoni, con la sua sfera ctonia e profana che pure era parte integrante del suo essere.
“Goodbye” di Gordon Jenkins è il suo ideale saluto al mondo dei mortali, quasi un atto di divinazione tramite l’ascolto che schiude porte mai profanate, e fa dispiegare le ali della percezione verso altre regioni del Bello.
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