Recensione di “Sorry We Missed You” di Ken Loach (8)
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“Sorry We Missed You” di Ken Loach (8)
Non ho mai particolarmente amato il crudo realismo di Ken Loach pur rispettando il magistero della sua sapienza registica, ma ho molto apprezzato questo suo ultimo film. Solo qualche giorno fa, prima della visione di “Sorry We Missed You”, scrivevo: “Vedo già quel futuro in cui il reddito sarà separato dal lavoro. Si nascerà con un credito e non con un debito. Il lavoro sarà una scelta che non sarà legata alla necessità di campare (a chi sorriderà consiglio di leggere economisti fuori dalla nomenclatura mainstream), ciò grazie alle biotecnologie, alle nuove iniziazioni, alla nuova umanità nascente composta da grandi assise consapevoli”.
L’ultimo film di Ken Loach ha così riacceso in me il convincimento che l’essere umano sarà effettivamente “libero” solamente quando si sarà liberato da questa tirannica necessità: il lavoro come sostentamento.
Il dramma di Ricky Turner e della sua deliziosa famiglia si struttura sulla necessità del Reale dell’universo “Amazon” costruito artificialmente, sul costrutto delle società consumistiche del Terzo Millennio, dove l’angoscia del lavoro bestiale non può essere mai integrata, né assimilata nella paradossale era della virtualizzazione del mercato del lavoro. Le belle anime della famiglia Turner vengono così sottoposte a una pressione sempre più schiacciante che finirà per precipitare nell’inferno del rapporto “finzionale” (“l’effet du reel” secondo Ronald Barthes) la dialettica dei rapporti affettivi. Il lavoro diventa per Ricky Turner l’ossessione che tracima dallo spazio della necessità, quando infortunato e prostrato, rimane preda del delirio masochistico, che potremmo simbolizzare in quella particolare forma di “contratto-messaggio” costituita dal foglietto lasciato dentro la buca delle lettere ai clienti non reperibili.
Tornano in mente le parole di Chesterton: “l’emancipazione dello spirito dello schiavo è il miglior modo di impedire l’emancipazione dello schiavo. Insegnategli a torturarsi per sapere se vuol essere libero e non si libererà mai”. Non è forse ciò che accade a Ricky? Il dialogo iniziale con El Pinche Tirano-datore di lavoro non è forse un manifesto poetico che annuncia il senso dell’opera? Il Reale si presenta sotto mentite spoglie: “non sei un dipendente, sei il boss”; dunque non più “impiegati” ma “imprenditori” in piccolo. Insomma, “sei libero di accettare il tuo rischio di impresa , nessuno ti obbliga”! La nuova schiavitù sociale passa attraverso l’illusoria scelta di diritti civili e un’apparente libertà di pensiero. Si potrebbe dire: “sei libero di scegliere cos fare del tuo futuro purché tu faccia la scelta giusta”.
La trappola è nell’illusione dell’affrancamento dalla schiavitù, nell’anelito disperato della ricerca di una autonomia per tutta la famiglia: nel nuovo paese dei balocchi non ci sono regali e giochi ma prospettive di autorealizzazione.
Il finale del film non può che essere maschera del tragico, follia e disperata fuga verso il delirio.
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