La mia recensione di "JOKER” di Todd Philips (10). Per Sicilia Report.
"JOKER” di Todd Philips (10).
Troppe parole sono state spese sulla trama di questo capolavoro, dunque parleremo delle nostre sensazioni dopo la visione del film secondo un abbozzo d’analisi non formale dell’opera.
La figura ricorrente del Joker, oramai un topos della nostra contemporaneità, racchiude, con l’onnipresenza della sua maschera, tutto il potenziale dionisiaco represso, l’archetipo della vita indistruttibile. Nel corso della sua “storia” - dal fumetto, ai cartoni animati, ai videogame, al cinema -, Joker ha rappresentato il tratto evolutivo e involutivo del concetto di follia, nel senso foucaultiano del: “che cosa è il folle in mezzo agli uomini di ragione?”. Questo processo di individuazione della pazzia del Joker si colloca nella dinamica sociale antitetica tra medicalizzazione-controllo della pazzia e sua proliferazione virale e carsica a livello globale.
Occorre ricordare Fontenelle con il suo “Pigmalione”; qui a parlare è la Follia: “Il mio dominio si afferma sempre di più/ gli uomini del presente sono più folli dei loro padri/ i loro figli li supereranno/ i nipoti avranno più chimere/ dei loro stravaganti avi”.
Lo straordinario Joaquin Phoenix è il Joker-Dioniso che, come il De Sade, è ossessionato dalla paura degli “uomini neri che vogliono farlo sparire”. Egli ha il compito di ridare voce al baccanale e di scoperchiare le porte dell’inferno sulla “ragione del mondo” che rende la follia talmente irriconoscibile da neutralizzare ogni suo connotato tangibile di forma e mitologema. In una New York da “Taxi Driver” e atmosfere à la Scorsese (gli anni sono quelli del film, e ci sta pure Robert De Niro), si celebrano gli atti di una tragedia contemporanea che attinge a piene mani dagli archetipi della tradizione classica, soprattutto quando il Joker “danza”, ossia partecipa della celebrazione misterica utilizzando il meta-linguaggio del dio che corre alla caccia per sbranare il nemico (pensiamo al Penteo braccato e ucciso in Eschilo).
Quando l’Arthur Fleck/Joker scrive nel suo diario-zibaldone oscuro “spero che la mia morte abbia più senso della mia vita”, di fatto annuncia il suo passaggio dal regno della psichiatria positivista, della coercizione-cura che identifica la punizione con la guarigione, a quello del sacro, della resurrezione dei reietti, dei poveri, dei pagliacci. Gli oppressi dal sistema coercitivo, traditi dalle falsi morali da show televisivo, vengono riscattati dal sacrificio del Cristo-Joker, e, tramite la maschera dell’Osceno rompono le gabbie fisiche e mentali dell’internamento, dell’alienazione del soggetto che si fa così corpo e massa rivoluzionario, violenza ancestrale e sovvertimento di tutti i valori.
Todd Philips orchestra questo ordito in maniera eccelsa: parte dal dramma dell’individuo e della malattia mentale per costruire una mitopoiesi del malato, mostrando come non si possa ridurre a “unità confusa” la molteplicità dell’essere. Da questo percorso di dolore nasce il mito dell’antieroe, del “villain” Joker oggetto di culto del nuovo Parnaso mediatico, nella nuova Delfi globalizzata che è la città di New York.
Come in “Martin Eden”, anche in “Joker” ci sono delle apparenti incongruenze temporali. Molti avranno notato, per esempio, che le vetture ambulanza sono quelle dei nostri giorni. Philips utilizza questi espedienti per rimarcare che il focus sta “lì”, nei veicoli dei nuovi traghettatori del malessere verso l’asettico degli ospedali e delle strutture psichiatriche. “Dall’uomo all’uomo vero, il cammino passa attraverso l’uomo folle”, per dirla ancora con Foucault, e dunque solo la catarsi del Caos del Joker dio-maschera può offrire una speranza per Gotham City, giacché senza il ruolo iniziatico del pagliaccio non potrebbe nascere il Batman-Bruce Wayne, di cui Joker è demiurgo. Qui sta la meravigliosa trovata di questo monumentale film, una delle più belle opere della nostra contemporaneità.
Francesco Cusa
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