La mia recensione de “La mafia non è più quella di una volta”, di Franco Maresco
“La mafia non è più quella di una volta”, di Franco Maresco (4,5)
Franco Maresco é forse l’ultima figura iconoclasta nel panorama creativo italiano, dopo i Bene, i Pasolini ecc. Egli è, salvo rarissime eccezioni, tutto ciò che attualmente manca in ogni “altro” ambito artistico. Il suo ultimo film, “La mafia non é più quella di una volta”, è semplicemente devastante. Devastante perché è nella sua essenza fuoco sterminatore, a dispetto dell’ennesimo canovaccio che funge da struttura di cartapesta, dell’ennesima “storia”, concepita giusto per contenere lo spettacolo da marchettari e del suo farsi “milieu” di omogeneità, artificialità espositiva, rispetto al caos disomogeneo di tutto ciò che tracima dalle zone “comfort” delle società del benessere . E si badi, “marchette” sono anche e soprattutto le manifestazioni di commemorazione, le posture dei paladini della retorica dell’antimafia, non solo i carrozzoni messi su da Ciccio Mira. Ciò Maresco lo evidenzia come mai forse prima, dando bestiale voce al vero esercito dei “vinti”, al mondo dimenticato dei reietti che nessuno riesce più a “vedere”, non essendo più intercettabile dai radar delle “Serre del Benessere” il disperato urlo degli esclusi. Eppure questo “insieme umano” - che non è più neanche da sfruttare come soggetto da redimere e alfabetizzare, che non è “spendibile” in nessun modo, tranne che per il consumo di telefonini e motori - proveniente dai territori dell’Osceno, dello Sporco, che resiste alle fascinazioni del vizio tollerato dalle società opulente (essendo comunque preda di altre droghe semantiche), si fa Soggetto Estetico, dando corpo alla tanto osteggiata frase di Beyus: “tutti gli esseri umani sono artisti”. Nell’immane museo dell’arte della cosiddette “affluent society”, lo spazio dei reietti può avere ricovero solo grazie all’operazione fattiva di Maresco, non certo a seguito delle cerimoniose e paludate campagne di “riqualificazione”, “riabilitazione”, “armonizzazione”, “scolarizzazione”, che di fatto finiscono col generare solo altre sacche di “ribellione” e di vie di fuga dalla coercizione mainstream.
Lo “zoo” di Maresco comprende oramai un bestiario degno del miglior Balzac, e l’ultimo involontario campione è Ciccio Mira, il quale, insieme al Resto del Bestiario, è maschera da cinema, proprio per le ragioni espresse sopra, e dunque pasoliniana essenza di “Reale”, di una forza del passato che resiste (ancora) al gorgo attrattivo dell’omologazione.
Tutte le maschere di questa farsa rimangono “vere” nel risoluto diniego a pronunciare la parola magica, l’abracadabra che aprirebbe le porte della “civiltà” e dell’assimilazione: nessuno dei partecipanti alla kermesse vuole o può dire alcunché contro la mafia. E anche qui l’operazione drammaturgica di Maresco si rivela surrealista, grazie alla “myse en abyme” di un “fatto” (lo spettacolo-tributo a Falcone e Borsellino) ove campeggia un cartello emblematico di omaggio ai due magistrati che viene sistematicamente ignorato da impresari e artisti. Non è tuttavia meno violento lo sguardo del regista sulla passerella annuale delle manifestazioni alla memoria dei magistrati uccisi barbaramente dalla mafia, che scruta endoscopicamente nelle viscere della cosiddetta “società civile” per scovare e mostrare le miserabili idiosincrasie degli abitanti dello “spazio integrato”.
Gli alieni di Maresco sono esseri mostruosi ma sinceri. Possiamo dire lo stesso della protagonista, della bravissima fotografa Letizia Battaglia? Possiamo dirlo di tutti noi?
La risposta è, forse, nell’animalesco russare di Ciccio Mira, mentre tutt’intorno al suo riquadro, si compone il mosaico del sistema che si autorappresenta e riproduce nell’artificio della “superinstallazione mediatica”, dell’immane “periechon” che tutto divora.
Francesco Cusa
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