“Dolor y gloria” di Pedro Almodovar di Francesco Cusa (5)
“Dolor y gloria” di Pedro Almodovar
di Francesco Cusa
Oramai si dà il via alle danze della celebrazione dell’ultimo film di Almodovar “Dolor y gloria”, e si anticipa addirittura il trionfo a Cannes della pellicola come (tardivo) premio alla carriera del regista settantenne. Ebbene, io invece mi sono annoiato come poche volte nella vita. Il film, che pure contiene squarci di devastante bellezza, figli del magistero e della sapienza registica dell’artista spagnolo, è una sostanziale narcisistica narrazione autobiografica volta alla ricerca di una potenziale catarsi (per tramite dell’arte cinematografica stessa); un processo snervante di auscultazione di malanni e memoria di un passato coloratissimo e dalle forti (almodovariane) tinte, da cui emerge (dovrebbe emergere) la ragione della nevrosi e dello stallo del protagonista Salvador Mallo, alias Antonio Banderas.
Questo approccio fin troppo didascalico e manieristico, in cui il dramma del regista-mondo si fa universale a seguito di incursioni nel Reale dalla navicella-casa, per tramite di malanni fisici e necessità di problematiche affettive mal risolte, pone la storia in un contesto grottesco: ogni essere umano vive una potenziale crisi ma un regista la vive in una modalità differente. Almodovar offre una riflessione adiacente ma mai dialettica dell’esperienza catartica del travaglio esistenziale. Egli pone un invalicabile muro tra sé e il mondo (gli spettatori) col risultato di una scarsa empatia per “quel” tipo specifico di “dolor”. Il paragone estetico espresso da molti critici col Fellini di “8 e 1/2” è, a mio avviso, altrettanto di maniera. Nel capolavoro felliniano l’elemento onirico crea una simbologia ontologica che rende il gelido Mastroianni “gelido a tutti”, e lo spettatore diventa “quel Fellini lì” perché costretto a “vedere” il mondo dall’unica prospettiva possibile (per quanto distante o prossimo possa essere lo sguardo sul mondo di un artista). E qui sta tutta la grandezza di quel capolavoro, nella capacità di trasformazione dello spettatore, nell’interscambio dei ruoli fra regista e fruitore, nel processo di identificazione, cosa che, viceversa, non sembra accadere in “Dolor y gloria”, giacché difficilmente si può vivere un dramma sbirciando dalle finestre di una bellissima casa madrilena.
Almodovar propone una rivisitazione “domestica” del suo personale dramma, ci invita come ospiti non graditi a una sua cena, ci parla della sua malattia in maniera egoistica, ci mostra il suo passato-presente tenendoci sostanzialmente “fuori dall’uscio”, e, in definitiva, delegando sempre all’Altro (il dottore, l’assistente, i farmaci, le droghe, il ritorno dell’amante perduto ecc.) lo scioglimento del bandolo della matassa, dell’ordito di una complessità chiamata vita.
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