Recensione di “Cold War” di Pawel Pawlikowski (9)
“Cold War” di Pawel Pawlikowski (9)
Wiktor e Zula sono gli Adamo ed Eva del nostro tempo e “Cold War” è un film sulla paradossale impossibilità d’amare. O meglio: è un film che vede in Thanatos il suggello indispensabile all’assoluto amoroso, al dominio della follia terrena di Eros. Wiktor e Zula possono amarsi e alla fine morire d’amore solo nel contesto di un mondo che li “prevede”, come solo nell’Eden possono amarsi d’un amore aulico Adamo ed Eva, pena la nascita d’una stirpe degenerata e corrotta. Dunque non è condivisibile, come mi è capitato di leggere in alcune critiche al film, l’ipotesi che i due protagonisti possano esprimere universalmente il simbolo d’ogni eterno discorso amoroso.
In questo senso Zula è figlia della metafisica del suo mondo, sente in maniera animalesca che non deve seguire Wiktor nel suo delirio ambizioso di conoscenza e sceglie di non varcare (nella prima fase del loro amore) le Colonne d’Ercole che li porterebbero a Ovest, verso la Parigi bohémienne che si rivelerà perniciosa e seduttiva. Cederà successivamente in funzione di un continuo travagliato viaggio intimo e geografico che porterà i due protagonisti alla deriva tra due regioni dell’essere e dello spazio. Tal narrazione è separata dal buio fra le scene, un limbo nero funzionale a ricamare il susseguirsi degli anni della Guerra Fredda sulla storia dei due innamorati, che Pawlikowski utilizza come espediente “poetico” atto a relegare ogni quadro nella dimensione del “linguaggio nel linguaggio” (per dirla con Valéry).
Così è ancora una volta un viaggio “dentro al cinema”, uno scavo nell’immaginario collettivo - tra “Il Dottor Zivago” e la “Nouvelle Vague” -, da cui estrarre perle d’una testimonianza che “ci parla ancora” di altri mondi e del nostro mondo - a livello cognitivo, gli anni della cortina di ferro rendono i protagonisti di “Cold War” al contempo prossimi e distanti. Quella di Wiktor e Zula è una storia densa di passione che non fa breccia fra le crepe delle mura di Berlino, e in cui l’unica via possibile alla simbiosi pare essere quella di un ritorno psicologico e concreto al mondo del passato, all’assurdo della legge kafkiana, alla mortificazione della libertà del soggetto, alla morte come catarsi, e in definitiva “alle radici”. La Grande Madre è lo stalinismo, con tutte le sue mostruose idiosincrasie, e purtuttavia “male necessario” alla sublimazione del vero amore.
L’Occidente appare dunque a Zula come una sorta di inferno, di trappola dorata che mortifica il sentimento e lo prostituisce alla logica del vizio e del successo mondano. Non a caso Wiktor diventa un musicista di jazz, e abbandona il suo microcosmo psicogeografico di compositore ed esecutore classico, cedendo alla tentazione della carnalità e dello “spleen” del jazz degli anni Cinquanta (occorrerebbe addentrarsi anche negli aspetti etnomusicologici dell’opera di Pawlikowski, ma si correrebbe il rischio di esondare dalle ragioni di una recensione cinematografica). A nulla varranno le mani spezzate del pianista da parte del regime, il donare un matrimonio e il figlio al lacché governativo pur di ottenere la grazia per l’amato, e niente potrà porre limiti a questa mostruosa passione che mortifica perfino l’amore materno, tranne, appunto, la morte che giunge a circoscrivere e a ghigliottinare Eros.
“Cold War” non è (solo) un sofisticato melò; è anche un viaggio nella memoria del regista che esprime la nostalgia per un mondo fatto sì di orrori e meraviglie, ma che rimane teatro indispensabile per la germinazione di una reale poetica del sentimento. Lo si evince dalla dedica ai genitori che appare dopo le ultime, straordinarie immagini".
Francesco Cusa
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