Recensione di “Dogman”, di Matteo Garrone
“Dogman” è un film che appassiona e delude, intessuto di contrasti e limpidezze, di forza espressiva e manierismo. E’ innanzitutto cinema di Garrone, ostentata firma autoriale, trionfo della maschera, soprattutto grazie al monumentale Marcello Fonte, una sorta di Flavio Bucci in miniatura e dunque di Ligabue cinofilo. Abbandonate (solo apparentemente) le divagazioni della fiaba, Garrone torna al grottesco del “realismo”: siamo dalla parti de “L’Imbalsamatore”, di Ernesto Mahieux, dell’estremo caricaturale che offre il destro alla tragedia, e dunque dalle parti di Pasolini, di Maresco e del primo Sorrentino.
Un cinema, quello di Garrone, che pare sforzarsi d’essere citazione e densità, irrazionalità d’un manierismo di provincia che risuona all’infinito all’interno delle sue volte, e che si nutre della sua stessa mefitica forza centripeta . Cinema di uomini, bestie e gabbie, a suo modo metafora e iperbole di un racconto maieutico, tanto più efficace perché frutto della recente cronaca. Complice l’ennesimo tappeto sonoro fatto di droni, con “Dogman” ci ritroviamo immersi in un’immane Gomorra da cui è impossibile scappare, in una cornice metafisica priva di direzionalità. L’angoscia dello spettatore è tutta “ambientale” e relativa alla “viseità” dei protagonisti, mentre il “Villaggio Coppola” è una sorta di non-luogo, l’espressione mitopoietica dell’universo psicologico del cineasta romano, estrema periferia irraggiata debolmente dai fuochi del teocentrismo occidentale.
Purtroppo pare che, ultimamente, si provi un sublime piacere nell’azzoppare quel minimo di pathos che renderebbe dinamica e vibrante la narrazione. Lo si annacqua nel brodo insipido dell’estetica “à la page”, delle oramai abusate atmosfere grigie da “Sud Italia visto con gli occhi di un lappone”. Diciamocela tutta: “Dogman” è un film discreto ma purtroppo vessato da certa insistenza - le capacità evocative dello scorcio, l’ossessione dei primi piani, il singhiozzo dell’affabulazione - che, alla lunga, finisce col gravare sulla pur pregevole fattura dell’opera.
Non basta un poderoso finale per riscattare il fin troppo annunciato magnetismo dell’epilogo, su cui grava - irrisolto - il dilemma filosofico del Fonte-Garrone, naufrago alla deriva in un arcipelago di isole prossime e distanti.
Francesco Cusa
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