Recensione de "Il Filo Nascosto", di Paul Thomas Anderson, 10
Dalla sartoria alla magia, al dolore della passione come via al sublime. Questa è solo una possibile interpretazione sibillina de “Il Filo Nascosto” di Paul Thomas Anderson, un vero capolavoro della storia del cinema, l'opera di uno dei più grandi cineasti viventi.
Un film immenso, totale, che non può essere recensito, delimitato, confinato entro alcun alveo estetico, e che abbraccia ambiti che vanno dalla “recherche proustiana” - il dramma edipico del rapporto con la madre -, alla metafisica dell’amore e della passione analizzata in ogni più contraddittorio dettaglio. La storia d’amore tra Reynolds e Alma attraversa la gamma di ogni singola campitura di colore della sfera estetico-emotiva, si nutre di ogni aspetto del morfologico e dell’invisibile, perfino (soprattutto) del marciume e della necessità della malattia, dell’avvelenamento funzionale alla rinascita per assurgere oltre il limite dell’umano.
Alma: “Gli ho dato ogni singola parte di me”; “Io posso stare in piedi all’infinito”; “Io ti voglio completamente inerme. Indifeso. Al tuo fianco avrai solo me”; “C’è come una enorme distanza fra noi”.
Reynolds : “Sono scapolo impenitente. Sono inguaribile. Non mi innamoro perché sarei un traditore e non potrei sopportarlo”; “Io credo che siano le aspettative e le congetture degli altri a farci soffrire”; “C’è un’aria di quiete e morte in questa casa”.
Sono solo estratti dai dialoghi, stelle nel firmamento delle armonie e del caos, balletto delle affinità e delle contraddizioni, dell’odio e della bellezza. “Il Filo Nascosto” è un flusso costante di dettagli, quasi il prodotto visivo di un romanzo di Nabokov, ma con il respiro d’un affresco del Mantegna. La cura preziosa delle stoffe, i gesti da danza del sarto, il neo di Alma, sono orpelli di una vita scandita dalle regole e dalle abitudini della fiaba, ma al contempo il segno di un vissuto maniacale, folle e vitreo. Le emozioni di Alma e Reynolds sono costrette entro trame di aghi e cuciture, corpetti e bon ton, sempre pronte a esplodere a deflagrare in uno stupefacente fuoco che non divampa.
Ecco allora il disagio, la malattia farsi strumento dell’Amore, linfa venefica che nutre la nevrosi e la sublima in qualità di estetica dell’antico e a dispetto dell’avvento della “modernità” (emblematica l’invettiva di Reynolds contro lo “chic”, e il rifiuto delle cure mediche: cosa è il medico se non l’avvento della “cura” della modernità, della tentazione? Infatti è il dottore che invita Alma alla festa di Capodanno, al trionfo del mondo volgare e globalizzato, della condivisione coatta. Ed è Woodcock a ricondurla poi alla magione, sottraendola alla naturale tentazione della festa, al Paese dei Balocchi destabilizzante).
L’amore può darsi allora solo nella rinuncia e nella tossicità, unici antidoti all’orrore del volgare, nell’esaltazione privata e domestica di un’elezione esclusiva. Il mondo di Alma e Reynolds è un mondo chiuso, asfittico, ma che lambisce il territorio della sacralità, dell’officio, della celebrazione del Bello nelle sue forme più estreme. La stessa passione è come ovattata, concentrata nell’implosione incestuosa che permea l’aroma della casa, nel ricordo della madre di Woodcock e nella relazione con l’austerità della sorella Cyril, vera depositaria di ogni segreto e della saggezza dei secoli.
Si potrebbe scrivere inutilmente molto altro. Andatelo a vedere e godetene in anima e corpo.
Francesco Cusa
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