Recensione della "La ruota delle meraviglie", di Woody Allen (5)
"La ruota delle meraviglie", di Woody Allen (5)
Ok, va bene la fotografia di Storaro (già in “Cafè Society”), la regia sapiente, il movimento studiato delle macchine da presa…ma la realtà ci offre l’ennesimo esercizio di stile del Woody-Allen-di-Natale. La cosa che infastidisce, al netto di alcune gemme di rara bellezza (su tutte la telefonata “abortita” di Ginny), è l’impalpabile anelito di costrutto fondato su didascalie fin troppo annunciate. Insomma: il simbolismo de “La Ruota delle Meraviglie” è semplicemente ridicolo. Allen oramai assomiglia sempre di più a certi allenatori di calcio dagli schemi logori che continuano a riproporre il medesimo modulo (un tempo foriero di successi) sfruttando fino allo stremo la grandezza di certi campioni. Soltanto che, a un certo punto, vuoi per ragioni di logoramento, vuoi per ragioni di anzianità, gli uomini di sport hanno quantomeno il buongusto di ritirarsi dall’attività agonistica, magari in favore d'una carriera da commentatori televisivi, o di rappresentanza. Qui l’ostinato Allen (che non possiede l’immarcescibile necessità espressiva di un de Oliveira) spreme fino all’osso la classe di Kate Winslet e Jim Belushi, ne vampirizza anima ed essenza al fine di produrre poche stille di nettare in un’opera confusa, infarcita di citazioni sterili, manieristica fino alla nausea.
Il magnifico caleidoscopio generato da Storaro evidenzia semmai - per contrasto - tale pochezza di idee, tutte cristallizzate nelle iconcine dei personaggi, in una sorta di presepe del ricordo che fa tanto nostalgica piéce disneyana. Il dramma reale è che Allen ha smarrito la sua visionarietà. Ancor peggio: Woody Allen è oramai incapace di farci ridere!
E’ diventato un tessitore di trame sterili, acconciate da cinema autoriale, confezionate come il bel regalino inutile da mettere sotto l’albero. Ormai si va a vedere il cinema di Woody Allen per “spacchettarlo”.
Perfino i due killer (straordinarie maschere de “I Soprano”) paiono essere lì per il puro gusto della citazione, maschere aliene conficcate a forza in un contesto sbagliato (“I Soprano”: andatevi a rivedere quella straordinaria serie se volete davvero riconciliarvi col Cinema). Coney Island è il presepe, la cornice immanente in cui il regista demiurgo relega e confina i suoi personaggi. Il problema è che la tragedia che dovrebbe dispiegarsi in questa agorà rimane invece accartocciata fra le lamiere della ruota panoramica, fra le pastoie del suo sterile impianto concettuale, con risultati che rasentano il patetico (vedasi il forzato monologo finale di Ginny, talmente paludato e fuori da ogni tempistica teatrale e cinematografica da indurre alla contumelia. Immaginate una sorta di epilogo dell’Odissea con Ulisse in preda al mal di mare).
Al di là delle belle apparenze, ne “La Ruota delle Meraviglie” non funziona quasi nulla. Non c’è nessuna tensione che non sia frutto della recitazione. Mai come in questo film ho visto gli attori…recitare. Una cosa davvero insostenibile, figlia di un approccio coercitivo e rigido che ben mi ricorda certe griglie compositive in grado di rendere asfittica, ad es., un’opera musicale.
Invano ho atteso un segnale da parte del Deus Ex Machina, l’enorme mano che forza il cielo di cartapesta e irrompe nella scena facendo a pezzi la “Ruota delle Meraviglie”. Da quanto tempo si attende un segnale visionario del genere in un film di Allen? D’un qualcosa che possa polverizzare il “contegno” borghese di ogni sua ultima opera? Impossibile: è la poetica di un cinema centripeto che nasconde una “volontà d’impotenza”; è il gatto che non si morderà mai la coda, il gatto alleniano che implode nella spirale interna.
Evviva dunque il bambino piromane: ma facciamogli dare fuoco anche a ‘sta pellicola! Che bel finale che sarebbe stato, vecchio caro Woody. Impara da Buster Keaton!
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