RECENSIONE DI "THE SQUARE" di Ruben Östlund (9)
Film importante, opera monumentale che affronta il tema del disagio della contemporaneità in una chiave che oseremmo definire “sinfonica”.
Si comincia con una dichiarazione di intenti: il direttore del museo (protagonista assoluto di questa Odissea) pone un quesito alla sua intervistatrice: “la sua borsetta, se la esponessimo al museo, sarebbe considerata opera d’arte?”. Con ciò Christian mette in chiaro la sua visione estetica dell’arte “come insieme di pratiche d’uso”, rievocando il famoso “giochetto” dello scolabottiglie di Duchamp.
Si prosegue col maldestro tentativo di rimozione di una statua equestre che finisce con lo spezzarsi in più parti.
Eccola l’arte contemporanea che non parla più ai cuori pulsanti delle vite, che vive nel paradosso settario degli specialisti, nella desolazione degli spazi vuoti in cui lo sventurato visitatore non può neanche fare una fotografia, e che muore nelle prigioni delle conferenze autocelebrative, ove i colpi di tosse, i cellulari che squillano, e le urla dei pazienti affetti dalla sindrome di Tourette, rappresentano l’unico genuino segno di “verità espressiva”.
Eccola l’arte per collezionisti, secondo la devastante critica alla critica, vera e propria cancrena del nostro tempo, sostituto imbarazzante di ogni fenomenologia d’artista.
Il tema dell’arte contemporanea è in realtà la rampa di lancio dei missili che Östlund sgancia per colpire l’opulenza delle élite di potere, e il regista opera proprio a partire dalla scissione in cui versa la contemporaneità dell’arte per estendere tale nevrosi alle storture della nostra società occidentale, sempre più in mano alle élite sterili, alle paradossali (in)competenze.
In questo senso è emblematico l’epilogo della scena di sesso tra Richard e la sua intervistatrice, in cui Il preservativo, il serbatoio della deiezione, del contenuto occulto, del rimosso, diventa tragicomico e grottesco oggetto del contendere, trofeo occulto bramato della Donna-Pattumiera (Anne tiene in grembo il cestino), portato osceno della plastificazione, dell’eros industriale. Questo è un vero e proprio atto di interiorizzazione dell’economia libidica.
“The Square” è un film denso di simbologie, di infiniti rimandi, in cui echeggiano i fantasmi di Bunuel, Sokurov, Kubrik, Vinterberg, è la mostra-manifesto di un’epoca: tutto ciò che sta al di fuori di “The Square”, ovvero al quadrato di fiducia e amore entro il quale tutto abbiamo gli stessi diritti e doveri, è territorio dell’Altro, del barbaro, dell’irrazionale.
In questo senso, forse, “The Square” è Schengen, è la cinta muraria e virtuale di valori ed egemonie condivise.
Ma per fortuna, i mucchi di ghiaia dell’opera dell’artista concettuale, vengono distrattamente rimossi da un inserviente, e qui è lo stesso Richard (evidentemente sulla strada di una progressiva “redenzione”) a porre rimedio con un espediente (come non ripensare allo straordinario Sordi di “Le Vacanze Intelligenti”?).
Dunque è nei “tic” che Ostlund individua un percorso di catarsi, in tutto ciò che “The Square” non comprende e ingloba.
Il discorso attorno al sesso e all’eccitazione del potere, il video della bambina mendicante che esplode e la conseguente viralità, il segno che il Media è in mano ai pubblicitari, alle marchette del marketing dei cosiddetti “creativi”, sono peculiarità da esorcizzare tramite gesti piccoli e grandi di “volontà di potenza”, in un mondo dove i figli, le bambine non vogliono più dipingere, mentre le scimmie di casa sembrano avere una vera passione per il disegno.
Oleg, la scimmia brutale, l’attore che irrompe nel Reale prekantiano della cena di gala, è follia privata di ogni umanità; dunque occorre che egli stupri affinché possa scatenarsi il delirio dell’Orda borghese, il sacrificio del Capro Espiatorio.
Così Richard, in questo suo viaggio iniziatico, è costretto a ricercare la via del perdono nella spazzatura, a sperimentare nella conferenza riparatoria con la stampa l’impossibilità di una dialettica tra diritto alla libertà di espressione e senso del limite, della censura.
Al museo, il sottofondo costante di rumori di scavi, il rombo sonoro, in casa, i lamenti del bambino che pretende delle sacrosante scuse, sono segni dell’Osceno Vibrante, “lamella” di Lacan, organo parziale di Freud, insistenza cieca e indistruttibile della “pulsione di morte”, dell’arcano organo privo di corpo, della “Cosa”. Il mondo irrazionale pressa e preme tutto intorno alla cornice di “The Square”, fagocita i valori e le icone del nostro mondo rigido, la Natura pressa da ogni dove ed ha il volto dell’Altro.
Il gesto di Richard-padre, la volontà di chiedere perdono non può essere relegato alla comodità di un video inviato dal telefonino. Occorre agire, tentare, adoprarsi, e non importa se poi alla fine ogni cosa sarà vana; sarà laforza della generosità e della capacità di chiedere perdono la maiuetica per le future generazioni. Lo sguardo delle bambine nel sedile posteriore dell’auto rivela l’infinito, incommensurabile patrimonio dell’essere, la perla più preziosa che sfugge ad ogni mercificazione, il senso distaccato del futuro.
Francesco Cusa
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