Recensione per "Cultura Commestibile" di "Dunkirk" di C. Nolan (9)
La mia recensione per "Cultura Commestibile" di "Dunkirk" di C. Nolan (9)
Il ticchettio di un orologio. Una settimana. Un giorno. Un’ora. Questo il meccanismo perfetto del progetto di Nolan, che narra le vicende storiche dei fatti occorsi nella spiaggia di Dunkirk secondo uno schema pitagorico di armonia (sono parole del regista). E ancora una volta sua maestà Il Tempo, il leitmotiv che unisce tutta l’opera cinematografica di Nolan, l'incedere del Divenire di una particolare eccentricità della storia, che con chirurgica perfezione porterà al culmine di un infinito crescendo le azioni di tutti i protagonisti e dell’intero Coro di questa tragedia della sopravvivenza. Ogni dettaglio è necessario al raggiungimento del vertice, del climax, ed è soprattutto il pregevole lavoro delle musiche di Hans Zimmer a rendere palese l’ordito dell’opera (utilizzo della “scala Shepard” per dare l’illusione di un ascolto sempre “ascendente” allo spettatore, di un crescendo senza fine). E’ davvero possente il lavoro che condurrà ogni elemento di tempo, luogo e azione ad incastonarsi secondo la tipica logica di unità aristotelica.
Un film sulla guerra…senza una goccia di sangue. E’ lo sguardo freddo e distaccato dei contemporanei, dei figli della “società liquida” alle vicende truci altrimenti narrate dal soldato Bardamu-Cèline. Così Nolan mostra ai privilegiati di Schengen il fantasma dell’orrore novecentesco, per tramite di una delle tante vicende strappate al secolo più truce e spaventoso dell’intera storia dell’uomo, per mezzo di questa singolarità che è frammento del Molteplice. In questo senso, mare, vite e cielo (acqua-terra-aria), sono l’espressione di un unicum morfologico, come i corpi dei soldati sparpagliati come alghe sulla spiaggia sono il paradosso antropomorfo di una descrittività impietosa, che rende il tripudio finale - la salvezza dei trecentomila grazie al ritrovato senso di patria di una nazione - poco più di un vagito nell’assurdo baratro dell’insensato. Da questo punto di vista poco importa che la prospettiva della narrazione sia smaccatamente quella inglese, a cominciare dall'utilizzo del titolo (Dunkirk e non Dunkerque), perché, secondo il regista, ogni prospettiva riconduce al dramma dei sopravvissuti. Lo sguardo di Nolan è panottico, algido, asettico. Egli non necessita, come fa il repubblicano Eastwood, di realizzare due film ("Lettere da Iwo Jima"e " Flags of Our Fathers), ovvero di mostrare la differente prospettiva di una stessa battaglia, perché per Nolan il Nemico è sempre e comunque l'Altro, come evidente dall'apparizione dei fantasmi dei tedeschi nella sublime scena dell'atterraggio finale. Nolan, a differenza di Eastwood, non ha alcuna morale da rivendicare, non ha una posizione da mantenere e neanche una prospettiva etica e dialettica. Tant'è che i personaggi paiono conficcati a forza dentro questa storia fatta di tante microstorie, e tutti, salvo qualche eroe segnato dal mito, desiderano portare a casa la pellaccia, né più né meno (in questo senso, sì!) che come il Bardamu de il “Viaggio al termine della notte”.
Non c’è un attimo di tregua per lo spettatore. “Dunkirk” pare il frutto di un unico piano sequenza che trascina dentro un gorgo di vacuità e precarietà, fino a lambire i margini della follia, della barbarie cieca, dell’inutilità del sacrificio. Insomma, tutto ciò da cui Bardamu e il nostro sentire del contemporaneo, rifuggono e che invece pare dominare le coscienze di milioni di esseri: soldati, tenenti, colonnelli, generali, politici, uomini di stato. Eroi e vigliacchi, indifferenza del cosmo e mito: un unico abbraccio che segna due ore di cinema che paiono eterne, e che pongono ogni epistemologia in un territorio alieno, privo di memorie e di passato. #culturacommestibile #nolan #dunkirk #francescocusa
Seguimi!
PLAY MUSIC!