Recensione di "Silence" di Martin Scorsese (9)
Opera totale, film immenso. Scorsese ci regala una perla nera, una sfera d’ebano, una monade squarciata dalla quale sgorgano nettare e sangue. Film denso, molto poco spettacolare, omaggio ai grandi maestri del cinema nipponico, opera da meditare e contemplare nel suo farsi, in ciò che diventerà con le evoluzioni del tempo.
Il film narra le vicende di due “padres” gesuiti in missione alla ricerca del mitico Padre Ferreira. Siamo nel Giappone medievale, all’epoca dei preti “lapsi”, degli apostati, ovvero di coloro che hanno smarrito la fede durante le campagne di conversione dei popoli. Padre Ferreira scompare dopo le ultime tragiche lettere in cui si denunciano i massacri di preti e cristiani subiti dalle inquisizioni nipponiche.
In “Silence” il tema della fede si incontra con la ragion di stato; siamo di fronte a un vero e proprio trattato di antropologia filosofica e religiosa, il cristianesimo e il buddismo come teste di ponte e baluardi dell’espansione e del contenimento del credo per una sorta di compendio sull’ “accessibilità di Dio” che ricorda certo intimismo delle opere di Sant’Agostino, come le “Confessioni” o “La Trinità”.
La dialettica della fede, nella visione dinamica della misericordia del Cristo, sembra tradire - soprattutto nella preziosa sequenza della scena finale del film, ove “liofilizzazione” del credo e “versatilità” del messaggio del Nazareno trovano collocazione subdola -, una qualche simpatia del regista . Ma non dimentichiamo che stiamo pur parlando del regista de “L’Ultima Tentazione di Cristo” e “Kundun”, e dunque è lecito pensare che si tratti piuttosto di un sentito omaggio alla vita avventurosa e straordinaria di questi personaggi, di un messaggio fortemente critico lanciato alla Chiesa contemporanea (anche se occorre ribadire che Scorsese afferma che questo film è stato concepito in tempi non sospetti).
Il travaglio dei due missionari si traduce tutto nelle dinamica tra misericordia e dogma, tra necessità e panica visione francescana, ed il contesto giapponese - “qui è tutta una palude in cui non si possono mettere radici” - funge da necessario ambito ove il “calvario”, prima di Padre Ferreira e poi di Padre Rodriguez, può esperirsi. Di conseguenza l’introversione del regista, il suo contrastato rapporto col divino e con i dogmi che da sempre hanno caratterizzato la sua filmografia, possono trovare collocazione nella vicenda umana e tragica d Padre Rodriguez, che rimanda per ostinazione alle fissazioni di alcuni personaggi “scorsesiani” (cosa era in fin dei conti il Travis di “Taxi Driver” se non una sorta di giustiziere che agiva in nome di una visione e di un dogma? Ripulire il mondo dalla fogna e dal pattume).
Non c’è alcuna via alternativa all’ascesi, al silenzio, alla via monastica. Questo sembra gridare Scorsese dall’interno di una bolla senza suono che è l’alveo di ogni esistenza. Dalle gabbie in cui è rinchiuso Padre Rodriguez arriva il messaggio non verbale per tramite delle sue contorsioni, della sua sofferenza corporale che è viatico, appunto, al silenzio che sarà, alla contemplazione di derivazione buddista, per quello che si rivelerà essere una sorta di tirocinio iniziatico, contrapposto alla visione militaresca dell’evangelizzazione gesuitica.
E’ importante il dialogo tra Padre Ferreira e Padre Rodriguez subito dopo il loro incontro, perché vengono poste le basi di un incontro sulla scorta di un afflato “prenichilista” tra anima dell’individuo e anima dei popoli. Fuori dalla mitologia rimangono solo le vite dei poveri esseri, le povere anime da salvare nel paradosso della negazione dei simboli stessi della religiosità: sputare sulla croce o calpestare l’immagine del Cristo. Questa sembra essere la necessaria conquista dell’essere, che esalta il valore dell’individuo a dispetto del dogma, il trionfo dell’uomo e dell’amore per tramite della stessa sconfessione di un credo.
«Se incontri il buddha per la strada, uccidilo!», recita un vecchio koan.
Pochi lo hanno sottolineato, ma è questo il vero leitmotiv del film.
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