Recensione di "Café Society" di Woody Allen (5)
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Woody Allen ormai non fa più cinema. Essendo (stato) cinema, Allen vive l’esperienza cinematografica con la necessità delle impellenze domestiche: un giorno vale un anno. Caso piuttosto unico che raro nella storia della settima arte, il vecchio regista americano pare mosso dalle necessità della ricorrenza più che da una reale urgenza espressiva, e comincia a stare al calendario come la festa d’un vecchio santo trombone. A far le spese di questo diktat è la scrittura, il canovaccio: diciamolo senza mezzi termini, molte delle ultime produzioni di Allen mascherano le enormi lacune di sceneggiatura (fatte salve alcune pregevolissime eccezioni, quali ad es.,“Match Point” o il delizioso “Magic in the Moonlight”) a furia di maldestri salti, “detournement”, e velocizzazioni della storia, che alla lunga evidenziano le smagliature di trame male intessute, figlie di una compulsiva ed ansiogena poetica, di una foga autoriale solo apparentemente algida e distaccata.
Ecco, diciamo che il vecchio Woody “può permetterselo”, può permettersi di canzonare lo spettatore, ancora e ancora, dopo pellicole indecenti quali “To Rome with Love”, che avrebbero stroncato la carriera di chiunque. Qui non si tratta di discettare del valore delle opere minori di un artista rispetto ai capolavori consegnati alla storia del cinema, quanto piuttosto di evidenziare la natura scadente di alcuni prodotti. Non è il caso certamente di “Café Society”, che è in grado quantomeno di riservare qualche delizia al dolente spettatore medio innamorato della poetica di Woody Allen. E noi finiamo col cascarci sempre, perché stiamo parlando pur sempre di un di un gigante, di un maestro, dell’autore di pagine di cinema memorabii che hanno segnato anche parte della nostra vita. Ma francamente, non ne possiamo più di questa “nostalgia” borghese ammantata d’una falsa aurea scanzonata e ridanciana, del mascara sulle rughe e del rossetto color carne sulle labbra di Madama Depressione.
E dunque poco importa che in “Café Society” vi siano delle autentiche pennellate di bellezza, come gioielli rari a incastonare lo sfumare degli istanti: i colori accesi del tramonto californiano, i volto diafani della bella protagonista, lo skyline di una New York decorata dalle cartoline della memoria.
Il meccanismo di affabulazione di Allen è ormai meccanico, inceppato, procede a furia di strappi, rimescolamenti, rattoppi, non appassiona perché è tutto incentrato su una verve soggettiva e maniacalmente autobiografica, agiografica, claustrofobica.
L’eterno rimando alla cultura ebraica, alla vita del quotidiano della propria adolescenza, finisce con l’addensarsi nell’iterazione smorta di una “recerche” che non ha nulla di proustiano. Nè giova al film (ai film di questi ultimi lustri alleniani) la polverizzazione rappresentativa di questo “trauma”, che vive e si incista nelle microstorie dei vari personaggi che si annunciano per poi sparire nell’oblio di una nevrosi del frammento.
Il cinema di Woody Allen si è “ridotto” ad una sorta di cinema decorativo molestato da derive ossessive e maniacali, le quali, non essendo “preparate e risolte” in nome di una sacrosanta legge del contrappunto, finiscono col pesare sullo sfondo di questo suo ennesimo “biopic”. La narrazione perenne di una nevrosi illimitata può essere una costante vincente, a patto però che la si riesca ad esorcizzare con una buona dose di surrealismo. Non provarci ancora, Woody!
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