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Francesco Cusa - Official Website - Recensione d "Ave, Cesare!" dei fratelli Coen (6)

Recensione d "Ave, Cesare!" dei fratelli Coen (6)

2016-03-17

http://www.lapisnet.it/il-magazine/ave-cesare-di-joel-e-ethan-coen/

La sofisticata orchestrazione realizzata in “Ave Cesare” da Ethan e Joel Coen, questa volta non entusiasma. Il progetto, davvero ambizioso, si arena nelle ampollisità dell’impianto progettuale, nell’ipertrofia della messa in scena, densa di rimandi, citazioni, ricostruzioni della gloriosa Hollywood degli anni Cinquanta. E il peso di questa esplorazione ricade tutto sulle spalle del povero Mannix, l’amministratore degli studios, che, come un padre antico e saggio, riporta a suon di ceffoni gli attori alla realtà del cinema e delle sue regole.
In definitiva, a questo ardito mosaico che mira a ricostruire (in tutti i sensi) le atmosfere e le storie dei protagonisti di quella gloriosa epoca cinematografica, manca la seduzione, l’appeal, la verve che normalmente caratterizzano tutta la produzione dei due cineasti americani, da sempre non solo “registi”, ma anche critici-cinefili, ed epigoni di una tradizione onnivora che potrebbe trovare un corrispettivo musicale nell’opera del musicista John Zorn.
Insomma la consueta distanza dei Coen, il distacco che ha da sempre caratterizzato le loro opere come tratto saliente e pregevole (pensiamo allo stupendo “Non è un Paese per Vecchi” oppure a “Fargo”, o ancora, andando più indietro nel tempo, a “Barton Fink”), in questo caso diventa cronico, siderale iato tra Deux e Mondo. A me è sembrato di assistere ad un noioso, per quanto pregevole, esercizio di stile; ho trovato forzato il riadattamento scenografico, ostentati gli omaggi al cinema di quell’epoca e stucchevoli le strutture dei dialoghi (sovente poco più che scadenti “calembour”). Si ride poco, a dispetto di tutta una struttura dialogica che parrebbe alludere ad una sorta di colto sarcasmo in divenire che mai si conclama compiutamente, e anche le prove degli attori paiono di maniera, troppo aderenti alla versione caricaturale dei personaggi. Ciò al netto del canonico margine di libertà offerto dai Coen ai loro attori, che immaginiamo preveda proprio una tale approccio forzato della recitazione. Ma è proprio questa torsione tra regia e interpretazione a generare un prodotto ibrido, privo di personalità, amorfo.
Mannix opera in un contesto filmico che oscilla tra il canzonatorio e il rigore storicistico, tra il divertissement e la ricerca del preziosismo; non si capisce bene, insomma, quale sia il reale intento dell’opera. Si vuol mostrare che quel contesto non poteva tollerare “rivoluzioni”, né Marcuse di sorta? Oppure che tutta questa romanzesca adesione alla causa comunista da parte di interi settori degli studios era a sua volta una singolare pantomima di quegli anni della Guerra Fredda? Non saprei rispondere ai due quesiti.
E’ però evidente che lo iato tra il vero e il verosimile finisce col dissolversi in “Ave Cesare”, che rimane a tutti gli effetti un film “anti-pirandelliano” (la prendo allegramente da lontano). Significativa, in questo senso, una delle scene più belle del film, quella della compenetrazione del legionario Clooney col Cristo, in una prova di recitazione memorabile che viene meno giusto nel suo culmine, per poi dissolversi nelle repliche infinite del dettaglio che non corrisponde alla battuta del copione (Clooney dimentica la parola chiave).
La proverbiale cura per i dettagli dei Coen, finisce col soffocare “Ave Cesare” in una pletora di citazioni, o per dirla con un perfido Sacks, ne "il cappello che venne scambiato per la moglie che venne scambiata per un cappello dalla moglie ecc.”, ovvero in un percorso infinito di associazioni senza fascino.