Recensione di "Janis" di Amy Berg (9)
Sono uscito davvero scosso dalla visione del documentario di Amy Berg su Janis Joplin, prodotto dal taglio classico che descrive la parabola di una delle più grandi voci della storia. Un lavoro che rimanda a certa documentaristica degli anni Sessanta e dei Settanta, assemblato con sapienza artigiana in un riuscito contrappunto tra le vicende private e pubbliche della cantante texana. La regia della Berg, quasi in sottrazione, grazie al minuzioso processo di cucitura ordito con sapienza artigianale, rappresenta un sublime omaggio alla figura della Joplin, al canto e al fuoco della sua passione viscerale, linfa e veleno per i nostri cuori e soprattutto per la nostra anima. Tale resa filologica è forse troppo vivida e la poetica di Janis Joplin troppo sincera e maestosa per essere mostrata nell’oscena nudità delle contrastate sue vicende personali, tramite la schizofrenia di un personaggio ambivalente e in continua ricerca di una catarsi che non poteva che essere performativa. Un essere di tale potenza ancestrale che si offre quale oggetto sacrificale di scandaglio a noi poveri figli della cultura sintetica, può essere fonte di grande perturbamento e generare perfino angoscia e disagio. Gli artigli della Grazia di questa sorta di semidivinità tantrica, creatura di mefitica purezza, scavano duri solchi sui nostri ansanti toraci: è la bestialità d’una vocalità che annichilisce ancora a distanza di lustri, rendendoci come impotenti testimoni d’una conclamazione di “verità”, è l’urlo d’un epoca che confluisce nel corpo di una ragazzina infelice, poco incline al rispetto delle regole e dell’ortodossia d’una società opulenta e sessista, urlo che si farà sempre più devastante distruggendo il corpo di Janis nel nome di una sacralità epica e incommensurabile. Portatrice di contrasti insanabili, veicolo d’una irriducibile urgenza espressiva, manifestazione del Sudicio, della Grazia, della Malinconia, della Vitalità, della Disperazione, del Delirio, questo è stata Janis Joplin, nella carnale e al contempo surreale visionarietà d’un canto che non potrà avere epigoni.
Francesco Cusa
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