Recensione de L’ATTESA di Piero Messina (4)
C’è una certa affettazione autoriale tutta italiana che muove dalle sponde del peggior Sorrentino per farsi corpo, sostanza e pellicola. E’ il caso de “L’attesa” di Piero Messina.
Cominciamo col dire che, francamente, non se ne può più di ‘sta Binoche allampanata, abbarbicata sui suoi stessi generosi polpacci, terribilmente “significante”, icona di se stessa, madre, donna, matrona, papessa, nonna, matrioska di Binoche seriali, dannazione della multiforme capacità espressiva del suo medesimo volto. Eccola, la Binoche; mostra impietosa le sue rughe, le vene e le venuzze, noncurante, fiera di questo sfiorire, d’esser donna stagionata, pienamente, tronfiamente donna, madre e oggetto matriarcale di culto.
E veniamo a “L’attesa”, al film. Che dire, ogni cosa è evidenziata, sottolineata, rimarcata, allertata fino alla nausea, permutata, frullata, riamalgamata fino al parossismo: manca solo un segnale luminoso e che annunci allo spettatore: “questa è una netta evidenziazione, occhio a non distrarvi”. L’impianto della tragedia scade nella farsa fin dalle prime scene: le urine in chiesa, il rivolo che scorre lungo il polpaccio della matrona (“polpacci, polpacci, polpacci”, ‘a ridatece Gombrowicz!) che fa tanto “fetish” e “scandalo” alla prima botta.
E poi risate sguaiate, la Binoche che fa la Binoche, due bei tomi che fanno i bei tomi, gli attori che fanno gli attori e che recitano in maniera talmente attoriale da farci odiare ogni cosa: il cinema, i pop corn, la vita. Vorrei avere un cartello per manifestare la “Condanna della falsità della recitazione”. Niente, non ce l’ho.
Che dire poi di questa immagine della Sicilia, col suo bel fardello (quantomai greve e inopportuno in tempi sì mediocri) di terra esotica ed ammaliante. Mi chiedo: “perché diavolo parlano tutti così!”, in questa maniera grottesca, affettata, ridicola, nell’intermezzo delle pause ignobili, pause in cui potrebbe passare una carovana di migranti, il circo Togni, o chessò mio padre con la macchina?
Tutto questo (tal pasticcio insomma), ambientato per giunta in Sicilia – a meno di disporre delle qualità descrittive d’un Vittorini, o del Bolognini de “Il Bell’Antonio”, – ha lo stesso effetto del cuscus servito in Groenlandia.
Ah! bastasse ammantare la pochezza e la banalità di certi dialoghi con questa aura tragica, taroccata, patinata, sciocca. La stucchevole scena del ballo in casa rappresenta il non plus ultra del cattivo gusto. Io non ne posso più di questo cinema del silenzio, in cui il silenzio sta a colmare il vuoto, l’inanità di un cinema estetizzante e falsamente allusivo, non ne posso più di questi particolari culinari, di queste sciocche zummate nel (del) particolare (pappe, pietanze, animali scannati), di questo diversivo inerte, di questa simbiosi scema tra uomo e cosa. “Stavo solo danzando. Non facevo niente di male”. Come se il male” possa essere qualcosa di diverso dalla tentazione, dal vestitino rosso, dalla suadenza della voce, dalla maledetta “sinuosità”. E certo che stavi facendo del male, sciocchina, stavi facendo “ingrifare” i due tomi, che diavolo farfugli in questo francese-italiano tristissimo! E poi ancora e ancora questa modulazione infinita della maschera attoriale della Binoche, col volto matronesco ripreso di lato, di sguincio, in frontale; poi l’occhio e le gote e gli occhietti da sicana, infine la demonica risata sguaiata, che giunge irrelata, come un petardo alla cena (quella sì che fa paura, davvero).
E via – su su! – col vento, col frusciar di fronde e ulivi, pompa di qua e pompa di là, con ‘sto materassino rosso che non c’entra una emerita mazza e che non commuove neanche di quel tanto. Cos’è codesto materassino? Il simbolo del figlio morto? Nessuno si commuove. Nessuno entra in empatia con niente: il paesaggio, tali benedettissimi attori, il maledetto materassino rosso. Niente. E dunque che facciamo? Che ci rimane da fare se non l’andare avanti nella visione: ora miriamo un pezzetto di mosaico di Piazza Armerina, la pasta con le carrube e la solita Sicilia vista dal buco del culo dei conquistatori: voilà, tocca mo’ ai francesi. E così diventa “chic” pure la tragedia, “vintage” l’ulivo, “fica” la scelta musicale azzeccata, “ganzo” il finalone con la musicona a palla. La verità è che a noi (parlo da siciliano) piace maledettamente essere conquistati. Godiamo in maniera prettamente masochistica. Non essendo capaci di autosupplizio ce lo facciamo infliggere.
Posso solo dirvi che a me ‘sto cinema innervosisce. Ma santo ragazzo (dico al regista), ma come fai a imbastire una trama del genere, quando già al quinto minuto tutti abbiamo capito l’inghippo? Il film diventa patetico giacché, nel suo immediato farsi, a ciascuno spettatore (mi ci gioco la vita eterna) sarà apparsa la seguente scritta a caratteri luminosi cubitali rosso inferno: “E chiedi no?”. Ragazzina, ma santo iddio, ma quante canne ti sei fatta? Che ci vuole a chiedere: “dove sta il mio fidanzato”?, e su!
Posso giurarvi che alla fine piangevo intimamente come un salice cieco.
L’ATTESA (Italia-Francia 2015)
di Piero Messina
con Juliette Binoche, Lou de Laâge, Giorgio Colangeli, Domenico Diele
Voto “Il Grandangolo No!” : 4
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