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Francesco Cusa - Official Website - Recensione di "Mia Madre" di Nanni Moretti (5)

Recensione di "Mia Madre" di Nanni Moretti (5)

2015-04-30

Mia Madre di Nanni Moretti è un film molesto. Poco importa sia o meno sincero. La madre di Moretti non è un personaggio universale (lo era nella sua incestuosa oscenità la Grande Madre di Bataille), è semmai un soggetto neutro, che commuove in funzione del contorno familiare che la rende “leggibile”, “connotabile”. È una storia privata che “tiene fuori lo spettatore”, relegandolo al capzioso e pervertito ruolo dell’Altro, nella tipica e imbarazzante locazione dell’intruso che origlia sulle disgrazie altrui.
Insomma, siamo, nostro malgrado, invitati “in casa d’altri” ad assistere al declino di una nobile donna, vissuto attraverso la vicenda umana dei suoi due figli. Si ha come la sensazione che la Buy, ad es., possa essere soggetto relativo di finzione scenica, talmente “verista” è l’aderenza con il nostro Immaginario che si finisce con il pensarla fuori dalle scene così-com’è: ovvero una sorella reale di Moretti.
Ebbene questa adiacenza non è più sostenibile in tempi di cervello all’ammasso, e da Moretti ci aspettiamo almeno un’allegoria sotto la crosta. Per le ragioni opposte, Sorrentino rappresenta – si mettano il cuore in pace in molti – l’unica frontiera visionaria del nostro cinema. La Roma di Moretti è la Roma dei tg. Una città stanca, borghese, molesta, la cornice triste di un uomo malinconico, privo di ardore, che celebra la dipartita della madre nel calvario della realtà domiciliare ed ospedaliera.
Il film fa leva su un pietismo che raramente riesce a sublimarsi dalla pastoie della commiserazione (tranne che nella scena finale, quella dei libri sulla tavola a celebrare la nobiltà della memoria), insistendo sulla modulazione costante di un unico refrain: il silenzio della relazione. Da questa nebulosa, dalle tonalità basse, opprimenti, non se ne esce con qualche sprazzo di Turturro. Non stiamo qui necessariamente evocando un cinema catartico o sensazionalistico. Stiamo dicendo che per realizzare un film “domestico”, privato, occorre avere determinate qualità; non basta essere introspettivi, occorre anche avere un buona dose di incoscienza, di disprezzo per l’agiografia, come nel Michel Leiris de “L’Age d’homme”. Avremmo gradito in “Mia Madre” almeno il barlume della furia terribile e cinica dei pensionati de “L’amour” di Haneke. Diciamolo, un film consolatorio che poco aggiunge alla pregevole filmografia del regista romano.