Recensione “L’ultimo Lupo” di Jean-Jacques Annaud (8)
Tratto dal romanzo di Lü Jiamin “Il totem del lupo” (il secondo libro più letto in Cina dopo “Il LIbro Rosso” di Mao), “L’ultimo Lupo” narra della storia di due studenti cinesi di Pechino mandati in missione in Mongolia a “civilizzare” le tribù nomadi e dedite alla pastorizia, e di come il libro non scritto della Natura finisca poi con l’istruire in maniera spietata i due giovani intellettuali, che rimarrano soggiogati dalla disumana meraviglia della Steppa. Nella retorica delle affabulazioni, tipiche del cinema di Annaud, viene a strutturarsi la simbologia di questo racconto tramite il classico scontro tra predatori e prede, qui particolarmente avviluppato in trame e rimandi: la lotta tra uomo e lupo, progresso e tradizione, stato e società tribale, colonizzazione e affrancamento, ecc. Il punto è che è proprio la cifra sentimentalistica della poetica del regista a stimolare il fanciullino dormiente, ad indurlo a muovere ulteriori passi verso il passato mitico e denso di brulicante senso.
Questa conflittualità, trova espressione nella dialettica suprema del rapporto tra Chen Zhen e il cucciolo di lupo, nella disperata conciliazione dei due microcosmi espressi da questa diade ed in definitiva nella celebrazione di un amore privo di confini. Gli incantevoli paesaggi mongoli rappresentano l’Uovo del Mondo, il “Brahmanda” permanente su cui non scorre la storia, quantomeno fino all’avvento della “civiltà”, della dittatura della modernità e di una teleologia corrotta.
La Bestia non è addomesticabile e il “si può allevare un lupo in un villaggio di pastori?” diventa l’epitaffio di un’opera mai scritta, che nega paradossalmente se stessa; il lupo e la sua nobiltà feroce, il vento, le acque e il verde dei prati e per contro l’uomo-belva, il disumano sotto mentite spoglie. La stessa saggezza del capo-tribù rimanda al selvatico, al rispetto della ciclicità delle stagioni e delle ritualità animistiche che pre-determinano le azioni, il Divenire. Essa può produrre azioni spietate, come è spietata la strategia del lupo che insegue la preda e che sarà a sua volta emulata da Gengis Khan a coronamento delle sue leggendarie imprese.
Il paradigma del film sta tutto nella disambiguazione della relazione tra soggetto-oggetto, significato-significante, individuo e collettività, nel continuo contrappunto tra uomo e natura che non può “risolversi” neanche con l’autodistruzione del pianeta, o metaforicamente dell’immaginario.
Il racconto edificante, da London a Twain, appunto a Lü Jiamin, ha lo scopo paradossale di arricchire l’intimità dell’essere, di suggerire, tramite la narrazione avventurosa, un percorso di crescita individuale, iniziatico e misterioso. La nitidezza delle immagini di Annaud è l’”àncora”, la cartina di tornasole che restituisce le ombre del nostro rassicurante quotidiano: non c’è nessun lieto fine e il volto di Chen è la faccia del Sole. Ma sono raggi che non riscaldano più il cuore degli uomini.
L’ultimo Lupo (Cina, 2015)
di Jean-Jacques Annaud
con Shaofeng Feng, Shawn Dou, Shwaun Dou, Ankhnyam Ragchaa, Yin ZhuSheng
Voto ‘Il Grandangolo No!’ : 8
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