Recensione de “Il sale della Terra” di Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado (9)
Non sono mai stato un gran fan di Wenders. Ho sempre trovato i suoi film molto concettuali ed estetizzanti, compresi quelli più celebrati dalla critica. Ad esempio, ho trovato insostenibile “Pina”, uno dei suoi ultimi lavori sull’opera della celebre coreografa tedesca Pina Bausch; un film che si è rivelato patinato al mio gusto, in aperto contrasto con la secca e non paradigmatica poetica della ballerina tedesca.
Ma in questo film, “Il sale della Terra”, sono costretto a ricredermi. Girato in collaborazione con Juliano Ribeiro Salgado (il figlio del celebre fotografo), questo documentario rasenta la perfezione ed esalta le caratteristiche del regista tedesco
Le fotografie di Salgado sembrano fungere da ancora, o meglio da fulcro alla “fissità dinamica” di certe riprese, trasformando in positivo quanto di Wenders non ci è mai piaciuto, ovvero quel suo essere sempre adiacente ai personaggi, troppo di presso al “soggetto”, a dispetto della paradossale (ingannevole) freddezza della ripresa (è ciò che determina un abisso, ad es., tra il suo cinema e quello di Antonioni).
Ne risulta un film straordinario, finalmente assistiamo ad una liberazione dell’oggetto filmico, al superamento dello stesso tramite un processo non indotto. Questa “voragine”, questa distanza, è l’opera di Salgado a determinarla, grazie alla forza didascalica delle immagini che restituiscono “la terra” al cinema wendersiano; una concretezza dunque autodeterminata e non frutto di progettualità o speculazione, che si impone per caratteristiche sue intrinseche, scavando un solco necessario allo sguardo contemplativo.
Il soggetto è l’osservatore passivo, la camera che precipita nel riflesso del fotografo, nella cattura di una fissità eterna che non ammette titubanze interpretative. Il soggetto semplicemente “si dà”, esprime il suo potenziale nella documentazione (documentario è documentare) del processo, nel ready made delle immagini che vengono “riprese” e dunque trasposte su un nuovo piano, un differente punto di vista; una variabile tra le infinite variabili possibili, tutte pertinenti alla poetica di distanziazione tra soggetto e oggetto, che è ciò che libera Wenders dalla trappola del suo stesso fare cinema.
Questo “tornare alla terra”, alle radici dopo tanto peregrinare, è il topos che consegna all’umanità una prospettiva ciclica, una coralità contrapposta al disagio solipsistico che per un certo tempo affligge lo stesso Salgado, dopo i massacri in Africa da lui documentati.
Separazione artificiale tra vita e storia che pare calare come una mannaia tra capo e collo di sua Madama Civiltà. E’ in questa fibrillazione dell’opera tutta di Salgado, che è possibile una catarsi finale; rimanendo al film, la trasmigrazione dell’anima di Salgado in quella di Wenders. Questo determina un microcosmo possibile, una identificazione spirituale, totalizzante, più che una dialettica. Ciò fa la fortuna di questo film-documentario.
La realtà si “riduce” nell’opera di Salgado – le sue foto – e poi ancora nella trasposizione cinematografica di Wenders, in un gioco di matrioske che ne ricava l’essenza intima, il cuore.
Come strappata dal suo fluire e resa eterna, senza tempo, essa assurge, nell’istante pulsante e senza direzione, al ruolo di killer sublime dell’astrazione della Ragione. Da vedere e rivedere.
Un film di Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado. Titolo originale The Salt of the Earth. Documentario, durata 100 min. – Brasile, Italia, Francia 2014. – Officine Ubu uscita giovedì 23 ottobre 2014.
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