Recensione di "Interstellar", di Christopher Nolan (9)
Un grande film di fantascienza. Tanto per cominciare. Nolan è regista di gran caratura. Il suo capolavoro rimane “Il Cavaliere Oscuro”, film “sporcato” dalla follia e dal dramma reale/ideale del Joker/Ledger, in cui Nolan raggiunge forse la sua più alta vetta creativa.
In “Interstellar” si intrecciano vari elementi attorno al tema dell’odissea e del viaggio verso l’ignoto. Si è dato forse troppo risalto, nella critica diffusa, ai temi di contorno: l’abbandono, la fine dell’era tecnologica, il ritorno alla società agraria. In realtà la centralità dominante del film sta tutta nella sfida prometeica tra uomo e cosmo, nel titanismo dell’impresa che sfida ogni resistenza, nello scontro tra logica e irrazionalità.
Film complesso, di “iniziazione”, in cui collassano buona parte delle dicotomie dell’esistente. Nolan è attratto dai paradossi della nostra contemporaneità – e questo sembra essere il lavoro di ricerca progressivo di tutta la sua filmografia,- dai tentativi di una dialettica impossibile tra scienza e metafisica, che in questo caso sembra trovare senso nella radice universale del concetto di amore. Rendere “reale” il paradossale, prassi la speculazione, proiettando un astronauta (Cooper) all’interno della “singolarità” (il buco nero), è il cardine di questa scommessa azzardata (nello specifico, una delle scene che rimarranno memorabili, al netto di quanto era stato fatto da Kubrick, monolite immanente per chiunque si accinga a trattare simili tematiche).
Per far ciò si avvale della preziosa collaborazione del fisico teorico Kip Thorne, una delle maggiori autorità in materia di buchi neri e degli studi gravitazionali, che è anche produttore esecutivo del film (si mettano il cuore in pace i detrattori intenti alla ricerca di presunte incongruenze: il film è basato su solidi dati scientifici e le stesse formule che vedete sulla lavagna sono quelle di Thorne).
Ne risulta un film straziante come pochi. L’assurdo temporale, i minuti che altrove sono anni, i filmati che vengono inviati da figli sempre più vecchi, definiscono un concetto di realtà che è difficile da concepire per la nostra mente. Ho letto di risibili critiche, di accuse di solipsismo, di mito dell’individuo, di soggettivismo maniacale, come se al mito dell’eroe prometeico potesse sostituirsi chissà che cosa, come se Ulisse potesse essere qualcosa di diverso dall’eroe che si confronta col Mito. Ho particolarmente apprezzato le ambientazioni, molto scarne e “vissute”, più prossime al modello sovietico che a quello della Nasa. Per il resto, inutile perdersi nei meandri delle citazioni riuscite o meno.
Le note dolenti stanno tutte nella banalità di certi dialoghi che finiscono per rovinare le atmosfere del film, le quali avrebbero necessitato di molti più silenzi (ma a pensarci bene, non è anche questo oramai un tòpos?), e nei cinque minuti finali, melliflua banalizzazione di buona parte della tensione accumulata nelle tre ore di film. In conclusione: un lavoro monumentale con parecchie falle, che sfiora il capolavoro per contenuti e realizzazione. Parliamo comunque di cinema con la C maiuscola.
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