Mio articolo per Cultura Commestibile n.65.
Addis Abeba. Etiopia. Difficile parlare di "diari di viaggio" nel 2014. Difficile farlo nel ruolo del turista, del musicista invitato a suonare ad un festival senza cadere nelle retoriche di prammatica. Al contempo però è lecito descrivere quantomeno una microstoria delle sensazioni, di ciò che, nella rifrazione, le magie dei luoghi offrono al riverberare delle nostre esistenze. La realtà è che Addis Abeba è come un fiore grigio che sboccia nell'anima. Ciò accade miracolosamente al rientro in Italia, in una sorta di intima e allegorica fotosintesi clorofilliana. Non so perché, ma è così. Alcuni volti, gli occhi di un tassista o di un mendicante, ad un certo punto prendono a balenare, durante il torpore dei grigi pomeriggi padani, magari nella quotidianità ritualizzata del pagamento di un casello autostradale o della fila all'ufficio postale. Una comunione improbabile di distanze, luoghi, ambienti, corpi pare coagularsi ed effondersi in maniera apparentemente irrelata, senza una consequenzialità, come risultato anomalo d'una scissione non causale, di accostamenti puramente analogici. Tornano all'olfatto gli odori aspri e i profumi delle spezie, all'udito il canto del muezzin e il trambusto del traffico impazzito, alla vista le carcasse d'auto, le polveri dei mendicanti, gli sguardi fieri, i sandali consunti, le danze vertiginose, i colori di fuoco, i dedali bui, i corpi supini nel sonno diurno sui cigli delle strade. Tutto questo, e molto altro, arriva in un'unica soluzione, senza preavviso, coglie di sorpresa, lascia attoniti, sbigottiti, depriva di senso le urgenze, relativizza le necessità del quotidiano. Non è accidia: piuttosto stupore. E' come rivivere l'afrore della storia dei popoli e dei continenti, delle vite e delle morti, del sangue di intere generazioni in un'unica soluzione, attraverso sensazioni dense e di natura speciale. Tutto questo in un attimo. Poi riprende il sopravvento la grana delle cose prossime, il frastuono del quotidiano e nella scorza della psiche continuano a tracciarsi i solchi consueti, a depositarsi le polveri dell'esistenza. Rimane però una sorta di eco, qualcosa di flessuoso, come un canto carnale, materico e denso, una scintilla, un lampo. Talvolta, questo indistinto morfologico, si palesa sotto forma d'una strada sterrata, sventrata, con le fogne a cielo aperto ed i negozi di frutta dove servono un delizioso succo di papaya e mango, sovrapponendosi all'asfalto, al baricentro medievale dei nostri centri abitati, alle geometrie europee di ciò che non è stato ancora deturpato, in una inconcepibile panoramica. Si inscrive dunque nell'intimo, in questi frangenti surreali, come un senso di smarrimento del presente, un sentore di cose perdute, di ciò che non riusciamo più a stringere nel pugno della mano. Questo è ciò che ho portato con me dall'Etiopia: un senso di appartenenza alla vita.
Seguimi!
PLAY MUSIC!