Recensione su Alias a cura di Guido Festinese per "Francesco Cusa & The Assassins" - il:2013-02-14
JAZZITALIA: Francesco Cusa & The Assassins: viaggio in Etiopia. - il:2013-02-06
Francesco Cusa & The Assassins: viaggio in Etiopia.
L’acacia è una pianta sinuosa e armonica, ed è bello pensare che proprio per queste sue caratteristiche sia assurta a simbolo di un rassegna jazz nata da un’idea dell’Istituto Italiano di Cultura in Etiopia, ad Addis Abeba: l’Acacia Festival – Jazz and World Music.
Quest’anno, in particolare, l’attenta organizzazione del Novara Jazz presenta, il 31 gennaio 2013 alle ore 18.30 - all’interno dell’Auditorium dell’Istituto Italiano di Cultura, la performance di uno dei gruppi più innovativi e preparati del jazz italiano (vorremmo dire ‘di tendenza’, con tutti i distinguo del caso…), ossia THE ASSASSINS con Francesco Cusa alla batteria, Luca Dell’Anna all’hammond, Flavio Zanuttini alla tromba e Riccardo Pittau al sax alto: “The Beauty and The Grace”.
"The Assassins è per me una nuova formula di trio, un progetto che eredita l'approccio compositivo del mio precedente gruppo Skrunch. The Assassins, grazie alle specifiche caratteristiche dell'Hammond, si apre adesso a certe influenze e a sonorità più vicine al funk e al jazz. Il lavoro di esplorazione dei materiali tematici è vincolato da schemi poliritmici atti a evidenziare le cellule melodiche, i riff e le modulazioni cromatiche e timbriche. Il rapporto tra scrittura e improvvisazione è dialettico. I vari elementi vanno dunque combinandosi in un gioco continuo di tensione e rilassamento, con uno sguardo alla tradizione e l'altro alla contemporaneità." (Francesco Cusa)
La Bellezza e la Grazia, così come le può percepire un bambino che con lo stesso candore rimane a bocca aperta ascoltando questo lavoro composito, ispirato e magnifico. ‘E’ tutto confusionario e bellissimo’, dice, e forse proprio in questo commento sta la forza di The Assassins. Provocatori e sorridenti, fin da quell’incipit ironico che ricalca certi cliché non molto ragionevoli (‘jazz… oh no, jazz….’) e parte con un attacco magistrale, con l’apporto di un organo hammond davvero inaspettato e metallico e degli opportuni passaggi creati dal sax alto di Piero Bittolo Bon.
Rimandi culturali altissimi, una tromba perfetta e la ritmica insostituibile di Cusa creano qualcosa di veramente profondo che, come spesso accade per gli artisti di Improvvisatore Involontario, parte da un gioco. Sdrammatizzando, rifuggendo intellettualismi. (Lorenza Cattadori – Blue Valentine Press)
In quest’occasione – già di per sé sensazionale – verrà anche registrato un cd ‘Live in Addis Abeba’, co-prodotto dal Novara Jazz e dall’etichetta Improvvisatore Involontario, a cui appartiene l’uscita discografica di The Assassins The Beauty and The Grace e che, anche attraverso questo evento, sancisce in modo sempre più intenso e proficuo la propria presenza artistica nel panorama jazz internazionale.
The Assassins votato da alcuni critici per AllAboutJazz 2013. - il:2013-01-28
The Assassins all'Acacia Festival di Addis Abeba - il:2013-01-25
MIa intervista per Il Giornale della Musica a cura di Paolo Carradori. Si parla di Max Roach e di "We Insist! Freadom Now Suite" - il:2013-01-22
Mia audio intervista per Jazz Convention, a cura di Fabio Ciminiera - il:2013-01-12
Registrata al termine del concerto di The Assassins allo Zingarò Jazz Club di Faenza, l'intervista con Francesco Cusa prende le mosse dalle sonorità della formazione - ampliata dalla presenza di Piero Bittolo Bon, nell'occasione - e dai progetti del batterista per poi affrontare argomenti più ampi, come la storia e la situazione attuale di Improvvisatore Involontario e per giungere infine a una riflessione sullo stato della musica di improvvisazione in Italia..
Recensione di Skinshout "Altai" a cura di Gianni Montano per Jazzitalia - il:2012-12-25
Altai
Improvvisatore Involontario (2011)
1. Fuga da Venezia
2. Verso Salonicco
3. Il mercato di Salonicco
4. Le mura di Costantinopoli
5. I tre venti che flagellano Costantinopoli
6. Altai
7. Arrivo a Famagosta
8. Il Bombardiere di Famagosta
9. La battaglia di Lepanto (schieramento delle navi)
10. La battaglia di Lepanto (galleggiamento di uomini vivi e morti e di detriti)
Tutti i brani sono di Gaia Mattiuzzi, Francesco Cusa, Xabier Iriondo.
Gaia Mattiuzzi - voce
Francesco Cusa - percussioni, elettroniche
Xabier Iriondo - taisho koto, mehai metak
Un disco di soli ventidue minuti e, pur nella sua brevità, decisamente inquietante. Ne sono protagonisti il duo "Skinshout" con la cantante, ma la definizione è da prendere con tutta la necessaria cautela, Gaia Mattiuzzi e il batterista e manipolatore elettronico, in diversi frangenti, Francesco Cusa, uno che non si tira indietro quando c'è da andare oltre determinati confini stilistici. Ospite della coppia è l'inventore di strumenti o il ricercatore di mezzi inusitati, o perlomeno inconsueti per fare musica, Xabier Iriondo, già collaboratore di un gruppo pop "intellettuale" come gli Afterhours. Per completare o per introdurre l'opera, c'è da segnalare che l'album si pone come una sorta di colonna sonora per un libro visionario e storico, come ambientazione, del collettivo "Wu Ming", punto di riferimento per la letteratura contemporanea di tendenza. Con tutta questa carne al fuoco il rischio era inevitabilmente quello di bruciarsi. In realtà i tre artisti riescono a rimanere indenni e a non provocarsi ustioni invalidanti, vista la situazione, producendo una musica assolutamente anticonvenzionale, ma coerente rispetto alle premesse indicate.
Nel disco si alternano quadri di diversa provenienza, estrazione e riferimento all'interno dei dieci brani. La voce della Mattiuzzi è un vocalizzo esasperato, fra accenti di sapore mediorientale, la tradizione operistica visibilmente maltrattata e tradita, l'esplicitazione di stilemi tipici della musica contemporanea. Le percussioni riempiono uno spazio ampio. Non c'è posto per il silenzio. Cusa con i suoi interventi contribuisce a trasferire gli altri due partners, in momenti successivi, nell'etno-folk immaginario, in una sorta di pop quasi regolare, fortemente scandito, in un paesaggio determinato da un muro di percussioni dissennate e dissonanti. Xabier Iriobo garantisce un apporto rumoristico disinvolto e conseguente, o introduce qualche elemento melodico (addirittura!), ma anche qui ci vuole coraggio e mente sgombra per coglierlo.
A conti fatti, malgrado un intellettualismo di fondo un po' troppo insistito, "Altai" ribadisce la linea editoriale di un'etichetta, l'Improvvisatore Involontario, che fa dello spiazzamento, della sorpresa, dell'inaudibile o dell'udibile con una notevole dose di disponibilità, un punto fermo nell'estetica e/o nell'opzione etica della pubblicazione.
Gianni Montano per Jazzitalia
Recensione di The Assassins a cura di Vincenzo Roggero perAll About Jazz - il:2012-12-25
The Beauty and the Grace
The Assassins | Improvvisatore Involontario (2012)
di Vincenzo Roggero
Mettete a disposizione di Francesco Cusa una batteria, una tromba con elettronica, un organo hammond, aggiungetevi in tre brani il contralto di Piero Bittolo Bon e dovrete fare i conti con degli assassini del suono e delle convenzioni, dei generi e degli stili, del comodo ascolto, dell'ordinario, del risaputo. The Assassins, per l'appunto, una delle tante formazioni partorite dalla mente del vulcanico batterista, compositore, scrittore, agitatore musicale e culturale nato a Catania, profondamente legato alla sua terra ma altrettanto irresistibilmente attratto da altre realtà geografiche e culturali.
Sullo schermo immaginario di The Beauty and the Grace l'organo hammond di Luca Dell'Anna proietta immagini inquietanti, corridoi senza fine in fondo ai quali albergano paure e inquietudini, claustrofobiche pareti mobili che tolgono aria ai polmoni, barriere invalicabili che ostruiscono ogni via di fuga del corpo e della mente. La tromba con elettronica di Flavio Zanuttini rimanda le immagini distorte di uno specchio andato in frantumi, volti irriconoscibili e deformati, espressioni di sorpresa di fronte ai bagliori accecanti di rasoiate che potrebbero rivelarsi letali. E la batteria di Cusa dissemina ostacoli, nasconde tranelli, assume l'andatura sghemba di certi pupazzi meccanici che improvvisamente cambiano marcia, si fermano, ripartono, entrano in fibrillazione, si agitano disordinatamente prima di colpire in maniera perfetta il bersaglio.
Ma quello montato da The Assassins non è un film dell'orrore né uno splatter movie, bensì un'orgia di suoni e di ritmi che libera paure nascoste e si propone come antidoto ai piccoli/grandi orrori quotidiani. La bellezza e la grazia del titolo? Ci sono, tranquilli. Basta cercarle nelle pieghe di alcune frasi, in frammenti di linee melodiche magari sommerse, nella sfrontatezza di alcuni accostamenti, nella leggerezza col la quale il grottesco aleggia in più di una sequenza. E... dietro il sorriso beffardo che, siamo sicuri, è stampato sul volto dei musicisti.
Valutazione: 4 stelle
Elenco dei brani:
01. Anthropopagy; 02. Orrore dentro alla coperta elettrica (Chamunda); 03. Breve storia di una padella cancerogena (kirtimukha); 04. Coca colon (Disco Infermo); 05. Cherry Manson; 06. Si può fare! (Shardula); bonus tracks: Vademecum della sterzata; Il cane del mio vicino gioca con la coda.
Tutte le composizioni sono di Francesco Cusa.
Musicisti:
Francesco Cusa (batteria); Flavio Zanuttini (tromba, elettronica); Luca Dell'Anna (organo hammond); Piero Bittolo Bon (sax alto in #1,3,6).
Stile: Beyond Jazz
Una mia intervista a cura di Lorenza Cattadori per ANDY MAGAZINE - il:2012-12-25
FRANCESCO CUSA
Francesco Cusa è un intellettuale e batterista jazz di forte e complessa personalità.
Uomo decisamente musicale e - per usare una sua espressione divertita - “ibrido continuo”, Francesco Cusa è il batterista asimmetrico delle coincidenze. Il suo drumming teso e intenso equivale alla scelta stessa del suo lessico e a quella particolare inflessione da intellettuale scanzonato con la quale risponde alle domande, sorridendo e restando in pausa un momento prima di scagliare il giusto attacco.
Tutti ti associano a una parola chiave: “improvvisazione”. Qual è il tuo sentimento riguardo a questo tòpos?
Sono semplicemente parole, che creano un immaginario ma che lasciano il tempo che trovano. Termini come “jazz”, “improvvisazione”, sono solo abiti che si indossano, spesso per comodità. Corrispondono a uno schema già prestabilito. Di solito, chi ti fa una domanda ha già una propria idea di cosa sia “improvvisazione” oppure “jazz”. Dunque la mia risposta gli arriva con un altro schema rispetto al suo! Si potrebbe continuare all’infinito…
Ma cosa rappresenta “per te”, senza codifiche e nella tua personale accezione?
Si fatica a rispondere, perché si sta parlando di qualcosa di talmente mutevole e cangiante... È vero che io improvviso, ma lo faccio all’interno di schemi che sono molte volte prestabiliti, come la musica che scrivo: musica ritmica, molto composta, poco libera, a dispetto di quello che molti critici scrivono… Parlano di improvvisazione in presenza di ciò che in realtà è codificato e scritto. Mentre spesso, al contrario, scambiano ciò che è totalmente improvvisato per rigida composizione… Dischi “provocazioni” del genere ne ho fatti tanti. Ad esempio Switters, con Gianni Gebbia, Vincenzo Vasi e con le parole di Wu Ming. Il disco nacque durante una seduta d’improvvisazione a Milano. Cinque minuti prima, al bar, scrissi su alcuni foglietti di carta dei testi improvvisati: uno era contro Giovanni Allevi (Allevi, Giovane Allievo); un altro era Ragazzo Giezz. Erano i tempi in cui il termine era usato in tono dispregiativo (ride).
La domanda voleva evocare il celebre Collettivo di musicisti chiamato “Improvvisatore Involontario” al quale fai capo…
Però involontario! (ride ancora). Gioco di parole per creare un cortocircuito che significa niente e tutto! Allo stesso tempo, come per molte delle cose che non significano niente, è un gioco di parole paradossale che dovrebbe far riflettere…
E non è proprio un ossimoro…
No, proprio ossimoro non è, perché uno effettivamente improvvisa involontariamente anche quando, da un punto di vista letterale, è chiamato a improvvisare. Quindi, come quando magari uno non ne avrebbe voglia, ma gli cade un piatto e lo prende al volo…. Diciamo che è il residuato di ciò che non è progettuale. Nonostante il progetto, nonostante la codifica, l’elemento che rende interessante il tutto è questo senso di straordinario. L’imprevisto.
Ami circondarti di musicisti che rispondano perfettamente alla tua idea di musica, piuttosto che cercare un interplay “in corsa”. Confermi?
Parliamo ad esempio di “Skrunch”, dove si avverte un’idea didivertissement … È un progetto specifico di musiche mie, direi anche piuttosto difficili. Tant’è che, finito questo, è stato sostituito da “The Assassins” (ride). Semplicemente, è il tipo di musica che scrivo a richiedere impegno… In definitiva, quelli con cui suono meglio sono anche quelli con cui riesco ad avere una perfetta sintonia nella vita. Ma questo è normale. D’altra parte, in realtà, suonare è una forma terapeutica. È una messa a nudo, un mettersi comunque in gioco, ed è al tempo stesso una cosa che può far stare malissimo o benissimo, senza misure. Spesso vedo musicisti tristissimi, ai concerti; mi pare che questa sia l’epoca dell’ipertrofia del controllo, dello scandaglio…
Cosa intendi per “controllo”?
È una cosa che può diventare orribile quando diviene controllo maniacale dell’esistente, o sull’esistente. Molto poco jazz; assai poco interplay (inteso come questione che riguarda pubblico, musicisti, sale, ambienti, bar, odori, profumi, vissuto…). È tutto un incastro e spesso il musicista jazz, lo sbarbino che si trova a suonare, interpreta male o è troppo concentrato su se stesso. Chiaramente, quando tu vai a riascoltare con atteggiamento critico, troverai sempre cose che non vanno, esattamente come l’ipocondriaco che continua a farsi degli esami. Le categorie dei musicisti si dividono in musicisti edonisti, che amano piacere a se stessi ma anche “darsi” agli altri, e musicisti invece tristi . La maggior parte, in Italia.
E a volte, al posto dell’anti-depressivo, usano l’auto-promozione?
Apparentemente sì… Questo scenario, nel medio-lungo periodo, rivela chiaramente l’inghippo. Ossia: l’auto-incensarsi porta automaticamente dentro un vicolo cieco piuttosto ossessivo. Il problema nasce quando un musicista con una forte percezione di sé ha pure ragione a credersi splendente. Lì nasce il dramma: devi augurarti che non sia vero, perché qualora lo fosse tu comunque non riesci a comunicare di essere strutturalmente il musicista più bravo del pianeta e allora in quel caso entri nella forma ossessivo-compulsiva…
Anche perché, in questo processo, non è contemplata un’evoluzione. È tutto contrario alla musica.
Ora ti dico cosa penso: il jazz italiano, in quanto tale, non esiste. È un’invenzione di marketing, che riguarda solo determinati artisti per ragioni di vendibilità. Non esiste una scena jazz perché l’Italia, prima di tutto, per ragioni storico-geografiche, non è un paese ma un insieme di Signorie e Feudi. L’Italia è Roma, Firenze, Bologna, Palermo…. Non c’è una scena che si possa concentrare come ad Amsterdam, a Parigi o a New York. È tutto frammentato! Musicisti e organizzatori sono vessati da una tassazione infinita, e tutto questo perché in Italia non si è mai creato un movimento unitario che abbia fatto proprie le battaglie reali e importanti: la fine del monopolio SIAE, la defiscalizzazione della musica d’arte e dei concerti… Sono battaglie che i musicisti dovrebbero fare proprie, ma sono talmente preoccupati di vivere le proprie ragioni personali che tutto questo si traduce in una specie di guerra tra poveri. La musica italiana è lo specchio di come va il paese in senso più lato.
A volte la critica italiana parla di un certo jazz come fenomeno innovatore ma soltanto in alcuni ambiti. L’accezione della frase non ti sembra negativa? Che reazione hai a riguardo?
Sono tutti involucri, sono categorie piccolo-borghesi, piccinerie con cui si ha a che fare. Come dice Nanni Moretti, “le parole sono importanti”… Quando fai una musica così intimamente indefinita, cosa rispondi? Dovresti citare, che so, il dadaismo, la fine della tonalità in Wagner, roba di un secolo fa… Che vuol dire? Il jazz è la musica che è nata con Jelly Roll ed è morta col free , col bebop o con la sua funzionalità di musica da ballo… e via così… Chiaramente ci sono stati degli atti estremi nel corso della storia jazz, iconoclastici per eccellenza e sovrapponibili a quello che è accaduto in altri ambiti artistici. Prendiamo il free jazz : ha determinato la rottura di tutte le forme che erano state create fino a quel momento, ma nello stesso tempo è rimasto un movimento confinato entro un determinato periodo storico, dopo il quale sono ricominciate altre forme. Secondo me, la realtà è che non c’è più nulla che si possa definire veramente innovativo: oggi siamo a rimestare e giustapporre i colori della tavolozza, ma in realtà siamo in un momento di profondo cambiamento. Tutto è globalizzato e viviamo nell’era della comunicazione di massa per eccellenza, della visibilità. Cosa questo produrrà non è dato sapere. A me sembra che, al giorno d’oggi, rispetto ai movimenti epocali e ai radicali cambiamenti del passato, sia tutto un po’ più confuso. Dagli anni Settanta in poi, nell’ambito del jazz, è nato una sorta di ibrido continuo in cui si mescolano forme completamente scollegate dal contesto in cui sono nate.
Bel termine, “ibrido”. Forse potrebbe essere calzante per definire la tua personalità e i tuoi numerosi interessi: oltre alla musica, anche il cinema, la letteratura…
Ho iniziato a suonare molto tardi, verso i diciotto anni. La scelta della batteria è stata causale: ero un metallaro confuso, e mi feci regalare da mia zia una batteria. Ma senza grandi convinzioni. Poi cominciò questo gioco, un gioco interessante che ho deciso di approfondire. Contemporaneamente, però, le mie passioni erano anche altre, come scrivere e interessarmi di cinema, e infatti negli ultimi anni ho deciso di applicarmi anche a questo. Sono molto interessato a una forma globale dell’espressione.
In quest’ottica rientra anche il tuo progetto su Buster Keaton…
È un progetto che si chiama “Solomovie” ed è nato una decina di anni fa. Ho scritto le musiche e le ho montate su video. Si tratta di sonorizzazioni con la batteria, un po’ in finto stile stride piano… Keaton mi è apparso perfetto perché si presta bene a questo gioco ritmico. L’idea di “artista globale” a cui mi rivolgo non è tanto quella romantica ma quella medioevale… sono sempre più interessato a fenomenologie che riguardino ricerca e spiritualità nel senso più bello del termine. La vita è un’esperienza meravigliosa e la musica deve rientrare in questa forma mentis. Invece, a volte, mi ritrovo a promuovermi, litigare, cercare, passare le mie giornate davanti al computer…
“Psicopatologia del Serial Killer”, “The Assassins”, “L’Arte della Guerra”… Qual è il fil rouge che lega questa scelta di atmosfere?
Ciò che appartiene a questo tipo di scelta è la visionarietà. Tendenzialmente sono più attento a ciò che di solito viene rifiutato, scartato, e che però piace. A volte, la bellezza si trova maggiormente in questo genere di meandri. Come dice Emil Baret, il vero problema dell’uomo contemporaneo non è il dolore ma la gioia. La gioia è un elemento totalizzante: ci brucia, come moderni Icaro.
Recensione di Mauro Campobasso & Mauro Manzoni Quartet - Ears Wide Shut a cura di Fabio Cimineira per Jazz Convention - il:2012-12-15
Parco della Musica Records - MPR 029 CD - 2011
Mauro Campobasso: chitarra
Mauro Manzoni: sassofoni
Stefano Senni: contrabbasso
Francesco Cusa: batteria
Ears Wide Shut è un incrocio multiplo di suggestioni. Stanley Kubrick - i suoi film, il lavoro del regista con la musica, la grande coerenza stilistica all'interno di una varietà estrema di linguaggi e generi - offre già in prima battuta una quantità enorme di spunti. Lo stesso ragionamento viene applicato in ambito musicale da Mauro Campobasso, Mauro Manzoni, Stefano Senni e Francesco Cusa in un percorso vario e articolato in un doppio CD, scaturito da un lavoro nato a stretto contatto con le immagini dei film del regista statunitense: il quartetto ha innescato un dialogo dialettico e profondo con il materiale visivo e sonoro originale, attraverso il montaggio eseguito appositamente per il progetto dal regista Pino Bruni. Una rielaborazione particolare, le immagini accostate in modo da offrire un riassunto ragionato della cinematografia di Kubrick, uno sguardo rivolto a mettere in risalto relazioni e nessi che ne attraversano e caratterizzano la poetica, immagini iconiche e colpi di maestro.
La musica proposta dal quartetto su disco è la sonorizzazione del montaggio operato da Bruni e, come si diceva, guarda in maniera aperta a generi e possibilità musicali differenti. Jazz, improvvisazione radicale, rock, atmosfere midwestern, reminiscenze popolari si fondono in una idea musicale fluida e inclusiva. Al suono degli strumenti si sommano gli inserti elettronici a dare profondità di campo e ambientazione alle tracce. La consuetudine dei quattro musicisti a muoversi in terreni diversi e, in particolare, nell'esprimersi in territori liberi e meno canonicamente strutturati rende fruibile la musica nonostante l'ovvia e necessaria esclusione della parte visiva nel disco. Ears Wide Shut diventa così il luogo di un incontro stratificato tra maniere diverse di affrontare il fatto artistico: nelle varie tracce entrano così le tante anima di un percorso estremamente sfaccettato, sia perchè così voluto dai suoi protagonisti sia per la natura stessa dell'oggetto affrontato e la trama predisposta nel corso del disco riesce a mantenere un suo equilibrio generale proprio perche si fonda su una concezione del tutto plurale, ricca di elementi ma, complice la dilatazione del disco doppio, mai confusa o ridondante.
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