Parole e immagini per… Francesco Cusa Di Daniela Floris e Carlo Mogavero a cura di JAZZIT - il:2017-07-24
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Parole e immagini per…
Francesco Cusa
Di Daniela Floris e Carlo Mogavero
24 luglio 2017
A Feltre, durante la quinta edizione del Jazzit Fest, in una bellissima sala di Palazzo Guarnieri abbiamo ascoltato i musicisti che sono venuti da noi a raccontarci i loro progetti.
Abbiamo messo a disposizione le nostre capacità di descrivere la musica, Daniela con le parole, Carlo con le immagini. E abbiamo creato per ognuno di loro uno scritto e due ritratti fotografici firmati.
Il testo non prevede un parere critico sulla musica descritta, le foto sono state scattate secondo i desideri degli artisti: ci siamo messi al servizio delle loro inclinazioni e dei loro desideri.
Questo è il risultato del nostro lavoro, che gli artisti potranno usare nei loro siti, come liner notes, come comunicato stampa, o comunque vorranno.
Di Daniela Floris e Carlo Mogavero
Francesco Cusa
Siamo al JazzitFest, quinta edizione, a Feltre e Francesco Cusa arriva alla residenza creativa di Palazzo Guarnieri puntualissimo (i batteristi vanno a tempo, ma Cusa va a tempo anche nella vita). Nonostante siamo al terzo giorno di un’esperienza totalizzante e nonostante lui abbia suonato tantissimo è sorridente; si è speso in più di un progetto e in più di un’iniziativa, anche estemporanea, e lo aspetta ancora l’impegnativo concertone di chiusura in piazza la sera. Se è stanco, dissimula benissimo.
L’intento sarebbe quello di farmi raccontare un suo progetto: ma mi accorgo subito che non è possibile, perché Francesco Cusa ha ben più da raccontare. «Ultimamente lavoro con due progetti centrali. Uno è Francesco Cusa & The Assassins, e con questo ensemble siamo già al quarto cd, “Black Pocker”, registrato con un quartetto d’archi arrangiato da Duccio Bertini; è un po’ quello che definisco il centro delle mie composizioni. Ma c’è anche il mio FCT Trio con Simone Graziano al pianoforte e Gabriele Evangelista al contrabbasso: sta per uscire per Clean Feed Records un disco con Carlo Atti al sax, un vero genio, un mito, che sono riuscito a portare a registrare in studio, impresa fino ad ora praticamente impossibile».
Fatico a prendere appunti. Anche perché quando Francesco Cusa racconta, ti viene da interagire con lui, non da trascrivere pedissequamente le sue parole con gli occhi fissi sulla tastiera. Lo fermo, cerco di rimettermi in pari, ce la faccio, non voglio perdermi nulla. La pago, la mia resistenza ad usare un registratore, mi piace prendere appunti, mi sembra di partecipare di più.
«Insieme a questi è uscito il disco in duo con Enrico Merlin uscito per Kutmusic, ed è un omaggio a Frank Sinatra. Si intitola “Frank Sinapsi”, ed è una storia surreale, che racconta di Frank Sinatra che decide di tornare come alieno ed uccide chiunque incontri. Il CD è corredato da un fumetto con i disegni fantastici di Mattia Franceschini». I fumetti: ecco emergere l’altra anima di Francesco Cusa, quella narrante, che si mescola con la musica, ma prima «Uscirà il CD in duo con Gianni Lenoci per l’etichetta Amirani Records ed è appena uscito “The Machine 3” con Pierpalo Martino e Gianni Lenoci per l’etichetta Setola di Maiale».
Ed eccola, la scrittura. Cusa si illumina mentre parla, sorride, è un fiume in piena, ma un fiume in piena che è allo stesso tempo energico e appagato, non saprei in che altro modo descriverlo. «Musicalmente sono tante le cose che mi appassionano. Ma sto portando avanti anche la mia attività di scrittore: è appena uscito “Racconti Molesti” per Eris Editore, di Torino. I miei racconti sono illustrati dal fumettista Daniele La Placa, e le sue immagini sono fondamentali, Daniele riesce a cogliere l’anima di queste mie piccole storie. Si tratta del mio quarto libro dopo le due edizioni di “Novelle Crudeli” sempre per Eris e “Ridetti e Contraddetti” per Carthago. Qui al Jazzit Festival c’è stata la lettura di “Racconti Molesti” da parte del gruppo di Feltre Bizzarri Lettori: bellissima!».
Sto per chiudere questo incontro, beh, mi sembra che ci siamo detti tantissimo, ma dopo una pausa in cui stiamo parlando forse dell’acquazzone che ci ha sorpresi la mattina Francesco Cusa mi guarda e mi dice «I miei interessi ultimamente in realtà non sono né musicali né letterari, sono interessato al cinema. Vado al cinema in maniera compulsiva. Tra un concerto ed il cinema scelgo di andare al cinema, da solo, a vedere qualsiasi cosa. Mi piace l’atmosfera un po’ alienante del cinema da solo, ci vado per dimenticarmi di me stesso. Scrivo recensioni per due riviste cinematografiche: Lapis e Cultura Commestibile. Ho un progetto che ho chiamato Movie: sonorizzo con la batteria grandi classici del cinema muto, soprattutto Buster Keaton…». Ecco, si torna alla musica: si quadra il cerchio. Ci salutiamo, e già so che sono possibili almeno dieci altre interviste. A partire dal cinema, magari, per passare alla scrittura, poi alla musica e poi al cinema. O magari alla pittura chi lo sa. O possiamo parlare magari solo della passione che lo guida in tutto ciò che intraprende, e che è a monte di tutto.
recensione del cd THE MACHINE 3 "Dystopia", a cura di Ettore Garzia - il:2017-06-13
E' possibile creare musica che sia realmente in grado di trasportare la psiche nelle sensazioni di 1984, il bestseller di Orwell? E' una domanda a cui dobbiamo rispondere dopo aver ascoltato la deflagrazione profusa dai Machine 3 (il trio Gianni Lenoci, Pierpaolo Martino e Francesco Cusa) in Dystopia. Huxley affermava che la società descritta in 1984 fosse preda del controllo politico di massa, mentre la sua società non porta violenza, ma la lascia in balia delle onde attraverso un controllo indiretto. Ciò che è importante, in entrambi in casi, è la creazione di un clima distopico isolazionista. Su queste basi l'operazione dei Machine 3 è perfettamente rodata: musica inquieta, senza mai un minuto di pausa, lavorata sulle capacità innate dei singoli musicisti; un prodotto dei tempi, l'ennesimo avvertimento sulle carenze del mondo, in cui musicalmente l'improvvisazione gioca un ruolo chiave per la corretta assegnazione delle parti: da un lato Martino, basso potente, penetrante e spesso risoluto in chiave costruttiva, con tanto buon utilizzo di elettronica live a supporto; dall'altro Cusa, batteria accesa, in costante ascesa jam, tra i pochi in Italia in grado di tenere tensione sullo strumento all'infinito, e per finire Lenoci che, distante dai suoi modelli, qui si piroetta in vari addensamenti pianistici, provvisti di velocità o clusterizzati, capace di fossilizzarsi su note o accordi specifici ricavati in porzioni estreme del piano o nel raccordo dei suoi interni. Un circuito inossidabile.
Come per effetto di una memoria cicatrizzata ed in una veste rinnovata nei contenuti, escono fuori in commutazione le politiche del suono di un certo Zorn del passato, le turbe di Henry Mancini del Peter Gunn, Cowell e tutti gli iper-modernisti del suono, il cinema e la suspence dei films post-moderni di Lynch, il fumo sonico di Elvin Jones, nonché il coinvolgimento di frange della letteratura musicale di fusione. Julia stampa splendide immagini di decadenza, foschie e nebbie di tutt'altra natura, Newspeak è un rullo compressore, 2+2 = (manca il 5 del racconto di Orwell) è un bagno di sonicità inquisitiva. Qui più che parlare di poteri manipolatori, dovremmo parlare dei poteri della libera improvvisazione.
Recensione del cd “Istante Groove” di “Carmelo Coglitore Quartet” - il:2017-06-13
Un pensiero musicale ben definito, che non prevede assolutamente gabbie coercitive. Un’idea artistica che non sfiora mai, nemmeno lontanamente, il pedissequo. Istante Groove è la nuova creazione discografica firmata Carmelo Coglitore Quartet, ardimentosa formazione costituita da Carmelo Coglitore (sax soprano, sax tenore e clarinetto basso), Giacomo Tantillo (tromba), Pino Delfino (contrabbasso) e Francesco Cusa (batteria). Gli undici brani presenti nel CD sgorgano dall’ispirata vena compositiva del leader. In Start The Music l’eloquio di Coglitore è maliardo, irrefutabilmente cerebrale, ma al contempo nitidamente intelligibile. Il climax criptico di Istante 4 è stimolante. L’incedere di Tantillo è spigoloso, debordante di spunti assai interessanti. Coglitore dà vita a un sermone fluente, ricco, sobillato dal costrutto ritmico cangiante e fantasioso di Cusa. In Istante 5 il sassofonista e il trombettista interagiscono simbioticamente, attraverso una certa consapevolezza e una manifesta padronanza dello strumento. Dai molteplici riferimenti al free, in orbita contemporary jazz, Istante Groove è un disco in qui i quattro audaci protagonisti suonano open, scientemente, senza mai bluffare, esprimendosi nel segno di un irrefrenabile desiderio di libertà creativa e improvvisativa.
recensione del cd THE MACHINE 3 "Dystopia", a cura di Fabrizio Versienti, per il Corriere del Mezzogiorno - il:2017-06-13
Recensione del cd "Paolo Sorge TRIPLANI" per All About Jazz, a cura di Neri Pollastri. - il:2017-04-19
C'è una qualche varietà stilistica nelle sette tracce originali che coprono i tretatre minuti di musica dell'album: si inizia con un brano ritmico -"Divergenze" -piuttosto classico e con la chitarra protagonista, per proseguire con "Floating," nel quale protagonista è invece il contrabbasso, per giungere a "Cielosfera," dove su un tappeto ritmico basso-batteria la chitarra del leader produce divagazioni di suoni libere e improvvisate, reiterate e suggestive.
Estremamente vario "Slonimsky's Domino," che riassume un po' la poetica del lavoro, usandone gran parte degli stilemi pur facendo prevalere il semplice fraseggio della chitarra, il medesimo che -in stretto dialogo con entrambi gli altri strumenti -predomina sia nella title track, in forme più ritmiche e oblique, sia nella conclusiva "TreDueNove," invece in modo più disteso e intimistico.
Lavoro sottilmente sofisticato, apprezzabile nei momenti più rarefatti e meditativi, anche se privo di particolari picchi creativi o espressivi.
Track Listing: Divergenze; Floating; Idea Due; Ciclosfera; Slonimsky's Domino; Triplain; TreDueNove.
Personnel: Paolo Sorge: chitarra elettrica; Gabriele Evangelista: contrabbasso; Francesco Cusa: batteria.
Year Released: 2016 | Record Label: Improvvisatore Involontario
Recensione di Frank Sinapsi: una voce dallo spazio a cura di Fabio Ciminiera - il:2017-04-13
Frank Sinapsi: una voce dallo spazio
Spoltore, Bellavista Social Club - 23.2.2017
Enrico Merlin: chitarra, live electronics
Francesco Cusa: batteria, live electronics
Una voce dallo spazio è il faro seguito da Frank Sinapsi - le mentite spoglie con cui si presentano al pubblico Enrico Merlin e Francesco Cusa - nel suo girovagare inquieto sui frammenti di una esplosione musicale che vortica intorno ai brani cantati da Frank Sinatra. That Voice from Space è il titolo del disco che i due musicisti presentano dal vivo al Bellavista Social Club di Spoltore: una metafora per dare spazio tanto il ruolo avuto da Sinatra nella vicenda musicale del novecento, quanto all'approccio espressivo del duo.
Basterebbero i titoli dei brani a dar conto della filosofia con cui i nostri due protagonisti hanno ricalcato la vicenda musicale di The Voice: Day and Night, On the Moony Side of the Street, Are You the Song?, Flying You to the Moon, The Night Is Blue. Il gioco di parole presente nel titolo rappresenta l'immediato corrispettivo di quanto accade sul versante musicale. Il tema viene smontato, sezionato, scomposto, ripreso, travolto, coccolato a seconda dei casi. Ne viene fuori un caleidoscopio di interpretazioni divergenti, di citazioni e suggestioni, di linguaggi e attitudini musicali: il filo rosso utile per tenere insieme il tessuto è un riferimento implicito alle melodie e al canto di Sinatra. Come spiega Merlin nelle note interne al booklet del disco, «abbiamo cantato la musica di un colosso del ritmo, del timbro, dell'espressività, della dinamica, della melodia (...) Solo attraverso un sincero approccio contemporaneo e (apparentemente) dissacrante si può omaggiare un innovatore.»
Una presa di posizione speculare innerva da subito il gioco che si innesca tra palco e pubblico, tra musicista e ascoltatore, tra omaggiato e "celebranti": la partecipazione - implicita ed esplicita, allo stesso tempo - alla finzione messa in atto dal duo, il ribaltamento continuo del punto di vista, il passaggio senza soste da un linguaggio all'altro, la gestione estrema delle dinamiche. Si accostano jazz delle origini e heavy metal, riff di chiarissima derivazione rock e ritmi swinganti in una ; si affiancano momenti dove la chitarra suona con l'amplificazione ridotta a zero e l'accompagnamento ritmico è affidato alla potenza sonora di una busta di plastica ad altri dove il volume satura. I passaggi avvengono con estrema velocità. Merlin e Cusa aggrediscono e attraggono l'ascoltatore, in una vorticosa alternanza di richiami, stordimenti, lusinghe e affermazioni stentoree. Il gioco, come si diceva poco sopra, va accettato e condiviso all'inizio per poi mettersi nelle mani dei due e accettare il processo di smontaggio, prima, e di sintesi, poi, applicato alla musica che viene maneggiata nel corso del concerto. Brani ridotti ai minimi termini e ricomposti secondo linee del tutto diverse per cogliere possibilità presenti negli originali e rese in maniera altra dal duo. La riconoscibilità del materiale costituisce il passante per far scorrere il senso dell'omaggio: temi e suggestioni inserite e stilemi provenienti da altri mondi musicali mantengono un grado di familiarità con l'ascoltatore. La "regia" del concerto spiazza senza però far perdere il contatto con quanto avviene sul palco: la velocità repentina di alcuni passaggi è un altro ingrediente utile allo scopo.
That Voice from Space diventa perciò un modo per rileggere, a cent'anni e poco più di distanza dalla nascita di Frank Sinatra, le evoluzioni della musica di improvvisazione e il suo contatto con altri mondi. Cusa e Merlin affrontano il dixieland, lo swing, le tante maschere davisiane e le derive astrali di Sun Ra in un progetto dove sono le melodie a caratterizzare, nonostante tutto, il flusso sonoro e la gestione del materiale. Una visione ironica e surreale - più che trasgressiva o iconoclasta - per offrire altre prospettive e ulteriori spunti di riflessione.
Segui Fabio Ciminiera su Twitter: @fabiociminiera
Intervista per Musica Jazz a cura di Lorenza Cattadori (2017) - il:2017-03-12
Intervista per Musica Jazz a cura di Lorenza Cattadori (2017) (seconda parte) - il:2017-03-12
Diario di un viaggio a Istanbul. Uscito per Jazzit nel dicembre 2016. - il:2016-12-16
Le magie degli incontri sono ancora una realtà, perfino nella nostra concitata società mediatica e dei consumi. La genesi del mio incontro con Selahattin Kaplan e il Kaknus Ensemble ha un che di romantico e di vissuto d’altri tempi: nasce alla fine di una jam session al Torrione Jazz Club di Ferrara (avevo appena suonato un brano); Selahattin Kaplan e Selim Koytak, rispettivamente il manager e uno dei componenti del Kaknus Ensemble, di passaggio a Ferrara dopo un concerto a Venezia, si recarono al Torrione proprio alla fine della serata e durante quel brano finale. Dopo le presentazioni, Selahattin e Selim espressero il desiderio di avermi come batterista nel loro ensemble: ovviamente accettai e puntualmente, dopo qualche tempo, ricevetti l’invito di recarmi ad Istanbul per un concerto e una session di registrazione del cd di prossima uscita del Kaknus Ensemble.
Il senso di fascinazione che proviene da questi incontri, l’intima ragione della vita estetica ed estatica del musicista-viaggiatore, sta tutto in questa magiche dialettiche che rendono sorprendente ed emozionante suonare. Peraltro ero molto felice di andare a conoscere uno dei luoghi più affascinanti del mondo, ovvero la millenaria Istanbul, ed al contempo eccitato per l’esperienza artistica che mi avrebbe stimolato a crescere, in quanto unico italiano in un ensemble di musicisti turchi e crimeani. C’è anche da chiedersi se un simile fatto possa mai accadere per tramite di promoter o organizzatori italiani: la risposta la lasciamo ai lettori. Ecco il mio diario dei giorni trascorsi a Istanbul. Buona lettura.
Di Francesco Cusa
L’arrivo a Istanbul è apparentemente simile a quello di tanti arrivi nelle grandi metropoli, ma, fin da subito, il complesso sistema di collegamenti in metropolitana, che affronto con Selahattin, mi ricongiunge al ritmo differente di una città che conserva la fascinazione peculiare delle miscele di antico e moderno, tipiche del sincretismo urbano dei millenni. Da siciliano, “riconosco” luoghi, facce e ambienti, e dunque sperimento una certa familiarità che è al contempo straniante e naturale, come un contrappunto tenue e violento di voci e visioni. I recenti eventi tragici sembrano comunque aver segnato nel profondo l’anima di Istanbul, e questo lo evinco sia dalle conversazioni con Selahattin sia dall’ossessiva presenza dei controlli della polizia ad ogni stazione della metropolitana: praticamente una sorta di perenne check-in, veniamo perquisiti e controllati coi metal detector ad ogni fermata.
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Prima di andare in hotel ho modo di assaggiare, in uno dei ristoranti tipici di Istanbul, un delizioso “kurufasulye”, un piatto semplice composto da riso e fagioli; mi addormento con la visione della città e il canto del muezzin al tramonto, in attesa delle prove serali.
Secondo Giorno. Dopo aver sperimentato cosa possa essere il traffico di Istanbul ed aver preso le misure con la guida “creativa” dei tassisti, mi ritrovo nel quartiere di “Galata Tower” dove si terranno per due giorni le prove, all’ultimo piano di un edificio interamente adibito a studi di registrazione e sale prove. Lì faccio la conoscenza dei componenti del Kaknus Ensemble: le affascinanti cantanti Tuğçe Karaoğlan e Canan Tugberk, il bassista Münir Gür, il leader Mamed Cafarov alle tastiere, Ahmet Selim all’ud e Onur Seçki alle percussioni L’atmosfera è cordiale e rilassata, beviamo il tè e ci scambiamo le prime impressioni; personalmente sono abbastanza preoccupato, giacché non mi è stata inviata alcuna partitura e dunque brancolo in una sorta di buio, avendo ascoltato i loro brani solo da una registrazione su YouTube.
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E infatti non abbiamo alcuna partitura! “Just listen!”, mi dice Mamed, e così cominciamo le prove. La musica è molto orecchiabile ma al contempo riserva dei terribili tranelli: stacchi in 11/8, forme (per il nostro orecchio) apparentemente asimmetriche, un certo modo di portare il “timing”…ma fin da subito c’è intesa e feeling, e le canzoni filano via lisce con le dovute pause necessarie alla decifrazione delle mie “parti”. Alla fine ci ritroviamo a cenare nel cuore della Istanbul mai doma, con ristoranti aperti ventiquattro ore al giorno.
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Il giorno seguente trascorro molte ore in moschea. Indipendentemente da come la si pensi, è davvero impossibile non rimanere rapiti e pervasi da questo profondo sentire comune: i profumi degli incensi e il senso di spiritualità “attiva” rendono magico il senso della partecipazione ad un rito toccante ed eterno. Il vento del Bosforo soffia in circolo fra le navate, straniante è il lucore del diurno: professionisti, manager, anziani, “uomini tecnologici” e vecchi senza una gamba giungono all’acme, il farsi della ora tredicesima; le donne sono dentro un “recinto”; comincia il canto del muezzin. Molti, per via della mia barba, mi scambiano per turco e mi chiedono delle cose. Io faccio segno di non capire. Mi sorridono tutti. Percepisco un senso di grande pace, umile e sincera. Il senso di fascinazione che proviene da questo culto è magnetizzante.
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Nel pomeriggio ho modo di andare a vedere il concerto del bravissimo Alessandro Lanzoni, che per coincidenza si trova ad Istanbul nei miei stessi giorni. Ammiro il suo piano solo all’istituto Italiano di Cultura e poi lo invito alle nostre prove.
Prove serali: la musica comincia a girare, occorre ascoltare bene, entrare in una certa dinamica ed empatia con un certo modo di portare il tempo. L’indecisione è sempre la medesima, ovvero quella di assecondare il flusso ma al contempo mantenere un’identità propria; è un equilibrio delicato, una linea sottile da seguire.
Quarto giorno: oggi suoniamo nella meravigliosa “Crimean Church”. C’è molta attesa per il concerto e la sala è esaurita. Sono giorni di disturbo fisico per me, con costanti giramenti di testa e nausee, ma la compagnia dei musicisti e di Selahattin, riesce ad alleggerire il peso del malessere. Prima del concerto discuto molto nei camerini con le meravigliose cantanti: parliamo delle nostre vite, delle nostre esperienza e pian piano ci avviciniamo all’ora del concerto. Effettivamente la sala è gremita; con gli altri musicisti ripasso il repertorio che per me è sostanzialmente un grosso esercizio mnemonico e di concentrazione. Quando entriamo nella chiesa, comunque, tutto pare assestarsi e il risultato è davvero emozionante: pubblico in visibilio e noi tutti felici. Il processo di apprendimento per emulazione, imitativo, ha prodotto i suoi risultati. Rispetto al codice della partitura, questo “metodo” consente una diversa concentrazione e un’attitudine all’ascolto non mediata dalla partitura musicale. Si risvegliano capacità di apprendimento sopite da troppe sovrastrutture: erudizione, studi, approcci, dipendenze.
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Quello che comincio a comprendere di questa straordinaria, bellissima città, grazie ai miei amici turchi che mi portano in giro, è che la zona di Besiktas è quella tradizionalmente di sinistra e degli universitari: qui si annidano gli “anti-governativi”. Molte ragazze preferiscono la vita notturna di questa zona (come se nelle altre parti non ce ne fosse, aggiungerei io). È un immenso bazar sempre aperto. E meno male che questo è un periodo di “crisi”.
Quinto giorno. Oggi col mio amico Selahattin vado a incontrare una potente “guaritrice” della tradizione del “kurşun dökme”, un culto pre-islamico ancora attivo anche se inviso dalla cultura islamica e dunque costretto in pratiche nascoste (anche se ci sono molte zone in cui è praticato e tollerato: influenze di matrice zoroastriana, comunque). Percorriamo un strada che a me pare infinita, tra battelli, metro, autobus: una durata di quasi due ore, che per un cittadino di Istanbul è assolutamente la norma. Comunque la città è un immenso bazar: immaginate una sorta di area grande quanto mezza Sicilia tutta fatta di strade, negozi, piazze ecc.
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Arriviamo a destinazione, il quartiere è modernissimo, sembra un strada di Londra o di New York, ma Selahattin mi dice che probabilmente sono il primo italiano a mettere piede in questa zona. Mi accolgono con una gran festa in questo piccolo appartamento: la “guaritrice”, i suoi figli, facce sorridenti e festose. Ci sistemiamo in cucina. Loro non parlano una parola di inglese e dunque Selahattin farà da traduttore. Sui fornelli vedo a scaldare della carta stagnola, poi una bacinella piena d’acqua con del pane a mollo che serve – mi riferisce – a fare assorbire il malessere. È un rito antichissimo, di millenni. Mi viene messa una coperta in testa. Non devo vedere. Poi sento dei gran rumori. Fortissimi. Mi toglie la coperta e mi fa vedere la stagnola che ha preso una assurda forma. “Questo è il tuo cuore, hai un cuore trasparente e limpido”. Poi prende a massaggiarmi la testa, il collo, le braccia. Emette come degli strani sbadigli e poi soffia. È come se prendesse questa energia negativa e la risputasse sotto forma di soffio. Riferisce che mi hanno fatto una sorta di malocchio. Molto tempo fa. Una donna. Parla di un luogo molto antico dove ho assorbito questa cosa: un cimitero, un castello. Poi materializza la carta stagnola e mi dice “andrai in America e farai dei soldi”. Tutto questo in un’atmosfera solare, grandi risate, e affetto. Mi dice di stare sereno, che da domani passerà tutto e di ritornare la prossima volta che sarò a Istanbul per il secondo e terzo trattamento. Io chiedo allora cosa posso fare per ricambiare, visto che lei non accetta soldi. Lei mi sorride e mi fa “Inshallah! Facciamo tutto questo per la gioia della vita e dell’Altissimo”. E giù grandi risate e sorrisi festanti. Mi abbraccia lei, e poi vengono tutti i suoi figli ad abbracciarmi come se fossi un fratello, uno della famiglia. Il fatto che sono italiano, per loro, è una gioia (penso a quanto orrore e ignoranza becera alberghi in certe nostre visioni del mondo). Indipendente da come possa leggere questo incontro – se riuscirà a guarire o a lenire il mio disagio fisico -, esso rimarrà una delle esperienze più belle della mia vita.
Arriva il giorno della registrazione. Dopo essere stato in giro ad acquistare – un must!- i famosi piatti turchi, sono ansioso di provarli direttamente in studio. Registriamo un pezzo tutti insieme (senza le voci), poi registro alcune take sovraincidendo la batteria sulle registrazioni precedentemente effettuate dal Kaknus. Il risultato è più che soddisfacente, e sono davvero contento di aver dato il mio apporto a queste musiche. Ho imparato moltissimo in questa settimana, musicalmente è stata un’esperienza molto importante e densa.
Infine mi trovo in attesa dell’aereo che mi riporterà in Sicilia…
A tutti i miei amici Ahmet Selim Koytak Tuğçe Karaoğlan Canan Tugberk Münir Gür Mamed Cafarov, Selahattin Kaplan, Onur Secki, Duygu Eskipınar Fanny Lulu Brawne, Alessandro Lanzoni, un grazie per la bellissima settimana trascorsa a Istanbul e per la vostra gentile e splendida accoglienza. Soprattutto a Selahattin voglio dire un grazie per la pazienza e la cura dedicatami in questo periodo.
PS
Incredibile coincidenza che non può essere coincidenza: stasera sono andato a vedere il film “Inferno” e l’intera sequenza finale è girata a Istanbul nei luoghi dove ero fino a stamane: Santa Sofia, La Cisterna della Medusa…
Intervista a Francesco Cusa in occasione del concerto di The Assassins al "Pinocchio" - il:2016-12-04
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