Miano & Cusa: Travels on the cusp of a needle - "Percorsi musicali" - il:2024-03-17
L’improvvisazione porta con sé sempre dei venti creativi. Nel passato qualcuno ha parlato di ‘liberazione’ del tempo, qualcosa che è in grado di mettere in luce le possibilità espressive dei musicisti in ogni momento. Da questo punto di vista è innegabile come siano importanti le idee, gli spunti eccentrici o le soluzioni adottate, tutti elementi che contribuiscono in misura variabile a definire uno spazio dell’espressione.
Tonino Miano e Francesco Cusa sono due artisti capaci di procurarsi superfici musicali a cui non manca nulla per piacere. Travels on the cusp of a needle, la loro recentissima pubblicazione in digitale sotto la denominazione The Box, fa di tutto per rifiutare una linearità espressiva che stavolta si basa su un incontro tra plurime tastiere e batteria: l’immediato punto di partenza per la definizione della loro musica va cercato probabilmente nell’intervallo temporale in cui i musicisti del jazz cominciarono ad usare i synth e diedero libero sfogo alle psicosi ritmiche senza pianificazioni idiomatiche; le improvvisazioni di Travels on the cusp of a needle hanno un traino apparente (ma solo in prima istanza) nei territori di Davis, Corea o Bley dei sessanta (la lista di coloro che hanno usato sintetizzatori e tastiere elettroniche nell’improvvisazione è davvero lunghissima), che arricchirono la loro espressione musicale con i prototipi analogici disponibili del tempo, nell’ambito di un approfondimento inusuale dei parametri musicali che stava coinvolgendo tutto il mondo musicale; poi, sul jungle sound di Davis è nata tanta dance music chiamata intelligente, così come le perifrasi di Corea alle tastiere hanno creato un’area compositiva di particolar pregio e interesse per fusioni e istinti orchestrali; ma senza dover riprendere tutta la storia, si può affermare che lo sfruttamento di tastiere elettroniche o di set percussivi beyond the drumset è stato copioso, pluridirezionale anche dal punto di vista compositivo, lasciando però intatta l’essenza primordiale, lo stimolo musicale imitativo che si è stampato nella memoria ricorrente dei musicisti.
Nei 7 brani che compongono i ‘viaggi’ di Miano e Cusa c’è dunque una personale espressione che segue un filo musicale logico: nelle note di copertina i due parlano di una pluralità di direzioni (acid jazz, ambient in piccole dosi, riferimenti a texture orchestrali, nonché un istinto puntillinistico ma decostruttivo delle forme) che mai si perdono in idiomi e sono il risultato di una strana congiunzione che nasconde da qualche parte in vitro una sostanza distopica. Ricerca delle estremità e utopie al negativo sono probabilmente i drivers di questa esperienza di Miano e Cusa, rispettivamente raggiunti da una parte con suoni ricercati sulle tastiere (le cuspidi di cui parla la titolazione) e dall’altra con una violazione sistematica dell’umore (per Cusa, i riferimenti orwelliani o ad Huxley non sono certo una novità).
Dopo aver ascoltato il lavoro, ho umilmente chiesto lumi a Miano sul tipo di tastiere utilizzate e ho compreso ancor meglio le dinamiche delle improvvisazioni portate a termine dai due musicisti; Miano si divide tra suoni al Korg wavestate, al Yamaha mx88, al Waldorf Blofeld, all’ASM Hydrasynth e usa una tastiera Arturia keystep collegata a dei software accessibili tramite personal computer (le applicazioni moderne e integrate dei moog con le qualità ed espansioni di Animoog Z e il Ruismaker Noir), il tutto senza sovraincisioni e assecondando i movimenti e i respiri dell’improvvisazione.
Vorrei anche sottolineare lo stile artistico della copertina dell’album che mi riporta alla mente le impaginazioni delle riviste cartacee: potrebbe essere una ‘simulazione’ di una copertina di uno dei tanti periodici che si trovano in giro nelle edicole, un riquadro laterale in alto a sinistra e uno in basso che riportano da una parte le informazioni di testata e dall’altra l’argomento principale trattato; poi la foto sfalsata dei due musicisti nel senso prospettico. E’ un messaggio politico quello che si vuol far passare con Travels on the cusp of a needle? Tutto congiura a favore di questa ipotesi (che qui tralascio), dall’uso del rosso per riempire i caratteri delle parole fino all’oscurità che fa da contrasto all’espressione accigliata di Miano. Invito i lettori a prendere visione delle capacità extramusicali di Miano, in particolare dei suoi dipinti astratti (vedi qui), configurazioni che mostrano un’incredibile capacità emotiva subito al primo impatto visivo e che insinuano un interesse fortissimo verso lo studio delle linee e delle densità, un movimento sublime per gli occhi che regala osmosi, proprio quello che Travels on the cusp of a needle vuole donarvi.
FCTRIO "Minimal Works" - il:2024-02-24
(Improvvisatore Involontario / Kutmusic, 2023)
Questo disco sorprendente del trio del batterista (e qui anche alle campane tibetane, che assumono un ruolo importante) Francesco Cusa insieme a Riccardo Grosso al contrabbasso e basso elettrico e Tonino Miamo al pianoforte ed alle tastiere ha qualcosa di speciale per l’empatia che si è creata tra i tre, alla ricerca di un suono collettivo all’interno di un concetto che fa del minimalismo, come dice il titolo del disco, la propria bandiera.
È una musica che colpisce e avvolge l’ascoltatore, talvolta astratta, talvolta avvolgente e calorosa, intensa, che ruota intorno alle quattro Meditations sparse all’interno dell’album, in cui si ascoltano le campane tibetane, senza dimenticare brani come Sweet Lucrezio o A Little Mouse, in cui il pianoforte ed il contrabbasso si girano intorno come un pianeta ed un satellite, accompagnati delicatamente dalle percussioni.
i tre vengono da esperienze internazionali, hanno collaborato con musicisti americani e si nota, per come proseguono nella messa in opera di idee personali, fuori da quelli che sono i consueti sviluppi del jazz fatto in Italia, senza stare a guardarsi in giro su quello che fanno gli altri connazionali e che poco o nulla a ha che fare con le idee messe in gioco.
Fra meditazioni e composizioni sviluppate in modo conseguente e dalle atmosfere appassionate, i tre incidono qualcosa di originale, minimalista, dall’uso ridotto delle note, ma con tanta passione che trapela attraverso la ruvida superficie.
Voto 9
Recensione di Francesco Cusa Trio Minimal Works a cura di Carlo Cimino - il:2023-04-06
Francesco Cusa Trio
Minimal Works
2023
Improvvisatore Involontario/Kutmusic.
di Carlo Cimino
Meditativo ma non rassicurante, musica in equilibrio tra maestria e mistero, Francesco Cusa descrive più o meno in questi termini il suo ultimo lavoro da poco pubblicato da Improvvisatore Involontario e Kutmusic.
Siamo certamente distanti dalle atmosfere sanguigne, aggressive e dirette di alcuni suoi precedenti dischi, penso per esempio allo splendido L'arte della guerra (Improvvisatore Involontario 2007); tuttavia Minimal Works non è musica da sottofondo, le Meditation musicali inserite tra un brano e l'altro non vogliono essere un neutrale accompagnamento alle nostre sedute di Yoga.
Sembrano piuttosto il frutto della meditazione, il risultato di un sofferto lavorio di introspezione, come se solo la musica potesse esprimere un'esperienza profonda e dolorosa, poiché le parole risulterebbero vuote o fraintendibili.
L'atmosfera ossessiva ed apparentemente caotica di “The Only One White Smarties”, nasconde in realtà un pensiero poliritmico complesso; quasi un'alchimia di piani sonori indipendenti ed interconnessi che danzano in un vortice dal sapore tribale.
Questa ambiguità tra caos ed organizzazione la ritroviamo nella successiva “Second Meditation” in cui suoni sfilacciati e morbidi sono agganciati ad un groove invisibile.
Non voglio spoilerare il disco descrivendo tutti i brani, ma davvero è notevole “Luminal”, in cui contrabbasso e pianoforte illudono l'ascoltatore introducendo con un andamento in 4/4, per poi virare in un inusuale 11/4; il brano si sviluppa in un ambiente vitale positivo, luminoso ed entusiasta (nel senso greco del termine).
Se da un lato bisogna sottolineare la visione lucida del compositore e leader della formazione, dall'altro corre l'obbligo di tributare il giusto merito al pianista e tastierista Tonino Miano, ed al bassista Riccardo Grosso, musicisti capaci di gestire un'ampia tavolozza di colori, timbri e sfumature dinamiche. Questo è indicativo non solo di grande padronanza tecnica, ma anche di saggezza e sensibilità musicale, che sono le doti dei migliori.
Insomma...cosa fate ancora qui? Abbassate le luci e sprofondate nell'ascolto!
Articolo del 05/04/2023 - ©2002 - 2023 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
- il:2023-03-01
Gli “Altri ritmi” di Bogani e Cusa conquistano il pubblico di In Art
Una serata originale, divertente e ricca di spunti di riflessione al Medoc di San Benedetto per il quinto appuntamento della rassegna letteraria e musicale a cura dell’associazione Rinascenza con la direzione artistica di Annalisa Frontalini. Guarda il nostro video.
Scritto da Elvira Apone in data 27 Febbraio 2023 alle 20:29
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Grande interesse e partecipazione domenica 26 febbraio al pub Medoc di San Benedetto per il quinto appuntamento di In Art Winter dal titolo “Altri ritmi”, dove il giornalista, scrittore e critico cinematografico Giovanni Bogani e il batterista, compositore e scrittore Francesco Cusa hanno conquistato il pubblico con i loro racconti e le loro riflessioni in bilico tra narrazione, poesia e musica. Ha dialogato con gli ospiti la sceneggiatrice e scrittrice Gisella Orsini; è intervenuta, inoltre, l’editrice e poetessa Valeria Di Felice, che ha pubblicato la silloge poetica di Francesco Cusa dal titolo “Nei dintorni della civiltà” (collana “Note di rinascenza”, 2020), a metà tra la ballata e l’impegno civile.
Il libro presentato da Giovanni Bogani, dal titolo “Altri attimi”, è nato dopo l’uscita di “Ancora un attimo, per favore”, in cui l’autore racconta sua madre dopo la scomparsa nel 2015 e di cui “Altri attimi” è la naturale continuazione. “Questo libro raccoglie pensieri, appunti e ricordi che parlano sia di mia madre che di me stesso – ha spiegato l’autore. Un libro attraverso cui Bogani sente la necessità di porre alla madre domande che non le aveva mai fatto quando era in vita e in cui si abbandona a “riflessioni esistenziali” attraverso il racconto di episodi della sua vita e del suo rapporto sia con sua madre che con altri affetti importanti: “ È un libro con alti e bassi, proprio come è stata la mia vita”. Ma è anche un libro in cui Bogani rivela il suo amore per la letteratura, il cinema, l’arte e, in generale, per le parole, di cui racconta di aver scoperto l’importanza in prima liceo:” Fu la professoressa d’italiano a spingermi, seppure inconsciamente, verso la letteratura e i libri. Mi ha fatto capire l’importanza delle parole”. Parlando poi di sua nonna ha ricordato: “Grazie a mia nonna, che era una pittrice, ho conosciuto il centro di Firenze e ho vissuto in due mondi, quello della periferia, in cui tutto era sempre uguale, e quello colorato, artistico e sempre nuovo del centro, dove c’erano i monumenti e mia nonna mi portava a vedere le sette chiese”. Un libro, quindi, che difficilmente può essere inquadrato in una precisa categoria e che, attraverso i ricordi più importanti ed intensi che sono, come lui stesso ha affermato, “un modo per tenere con noi cose e persone”, traccia un percorso “fatto di entusiasmi, siano essi persone, famose e non, siano essi parole, come quelle che usava mia madre”.
Nel reading “Drums & Books” Francesco Cusa ha offerto al pubblico di In Art uno spettacolo originale e carico di verve, in cui ha coniugato la sua anima di musicista a quella di autore di racconti, poesie e aforismi, alternando letture di estratti dai suoi libri a intermezzi con la batteria. Una performance accattivante e fuori dagli schemi, in cui l’ironia ha fatto da filo conduttore di un viaggio attraverso ricordi, sentimenti, sensazioni ed esperienze che hanno lasciato il segno nella vita di questo artista poliedrico e istrionico.
Il prossimo appuntamento dal titolo “La profonda leggerezza dei visionari” è con In Art in Teatro, martedì 7 marzo, alle ore 20,45, al Teatro Concordia di San Benedetto del Tronto, dove Simone Terreni presenterà il libro “50 Menti visionarie. Le persone geniali che ci hanno condotto all’era digitale” e Federico Sirianni (voce e chitarra), con i musicisti del Teatro Canzone di Giorgio Gaber, Gianni Martini (chitarra) e Claudio De Mattei (basso), si esibirà nel recital dedicato a Giorgio Gaber “20 anni senza il signor G”.
Francesco Cusa, Giorgia Santoro – “The Black Shoes” – Dodicilune (Gerlando Gatto) - il:2022-10-28
Francesco Cusa, Giorgia Santoro – “The Black Shoes” – Dodicilune
Album denso di contenuti questo registrato dalla flautista salentina Giorgia Santoro e dal batterista siciliano Francesco Cusa, artisti ben noti e apprezzati nel panorama jazzistico non solo nazionale. In repertorio diciassette composizioni, sedici originali più la conclusiva “Un Joueur de flûte berce les ruines” del grande Francis Poulenc. Il punto di partenza è declinato chiaramente nel titolo: le scarpe nere sono quelle del jazzista che proprio attraverso la musica tende verso il cielo. Il terreno su cui si muovono i due è quello della libera improvvisazione con un linguaggio ben coerente con gli obiettivi prefissati. Di qui il ruolo diverso assunto dai due strumenti: la batteria che quasi personifica la vita terrena con tutti i suoi pesi, mentre i flauti – la Santoro ne usa tutta la ‘famiglia’ – sembra indirizzare la musica verso l’alto. Ciò detto è comunque difficile se non impossibile penetrare nella mente dei due artisti e stabilire senza ombra di dubbio cosa volessero rappresentare. Alle nostre orecchie si presenta una musica tutt’altro che facile, in cui si nota una ricerca che si sostanzia in improvvisazione come composizione istantanea, tra le cui pieghe alle volte si intravvede qualche traccia di linea tematica, come nel caso di “Whisper”. Il tutto sostenuto da un bagaglio tecnico di notevole spessore e da una comune fonte d’ispirazione.
Una bellissima recensione di Vic da parte di Annalisa Pascai Saiu - il:2022-08-27
Spazi di scrittura
A VIC di Francesco Cusa.
Perchè tutto ci vuole iniziare, o meglio, tutto ciò che richiede un certo sforzo metafisico,animico e intellettuale, richiede una spinta iniziatica?
Perchè nessuno vuol mai finirci?Perché puntualmente quando iniziamo qualcosa, appare la magica quanto infingarda figura del Bagatto, a volerci iniziare?
Io voglio finire, voglio finirla con questi continui inizi, mirabolanti iniziazioni,percorsi iniziatici e via discorrendo.
Io voglio finire tutto e soprattutto non voglio iniziare più.
Questo mi dice VIC, si, me lo dice proprio, e solitamente, secondo le norme vigenti di decoro nella scrittura, si deve usare la terza persona.
Ma stavolta no, non posso,
mi rifiuto categoricamente, perchè VIC ,
non apprezzerebbe.
È venuto a parlarmi personalmente,
ad un certo punto, all'arrivo di Linda, c'è stato un cambio di paradigma, anzi un cambio dimensionale, in una zona eterica, che se dovessi collocarla nel corpo sarebbe tra la scapola sinistra e la nuca.
Una presenza persistente, mentre lavavo i piatti, mentre lavavo la cucina e canticchiavo Era de Maggio di Murolo, mi ha interrotta, iniziando a fagocitare i miei pensieri , ed anche le mie azioni.
Diventate automatiche e non più presenti alla realtà dell'azione stessa, mi ha riportata alla husserliana memoria - ALLE COSE STESSE.
SI, un tonante Sì , ALLE COSE STESSE, ma senza prenderle per mano, senza per forza doverle ingerire, come dice il nostro amico, in questa forma di "fito-filosofia", questo avvelenamento del pensiero fagocitato e fagocitante, che fa perdere ogni barlume di lucidità, e badate bene, che lucidità e raziocinio, sono cose completamente differenti.
Fuori le porte del Santuario di Apollo a Delfi, è scritto "γνῶθι σαυτόν - nosce te ipsum - conosci te stesso", che è l'atto più lucido e meno razionale al contempo, che si possa compiere, poichè il Nosce te ipsum, è brama di assoluto, è forse quel tentativo di esser sacri, senza esser con-sacrati, esattamente come ci indica l'etimologia della parola stessa.
Perché la consacrazione, è iniziazione, per forza di cose, è parte di quella iniziale torsione, che si perpetua all'infinito.
Meditando ad esempio sull'alef-beit e i tarocchi, specialmente nella versione di Oswald Wirth,intuisco che connettere IL MATTO, al primo risveglio di Dio stesso, è cosa buona e giusta, quel Caos divino, o solo Caos, come asserisce Carbone , in post-fazione.
Ma andando avanti, ecco che arriva il manigoldo, questo Dio che è anche Demiurgo(?), come ce lo suggerisce la figura ambigua de IL BAGATTO, che è si l'iniziato, ma anche il Magister Ludi, colui che può sì ,farci divertire, ma anche ammaliarci, egli è figura mantica, come Apollo del resto, per questo l'apollineo monito CONOSCI TE STESSO, è enigma, è il tranello dei pidocchi che uccise Omero.
È L a manifestazione di Dio, la prima, questo Aleph א , il toro, colui che per umiltà , precede la Beit, la Genesi, il BERESHIT בראשית , l'inizio degli inizi, la prima divisione.
Tarologicamente rappresentata da LA PAPESSA, il primo 2, colei che detiene le chiavi e il Libro, assisa in trono, Signora delle colonne JAKIN E BOHAS , custode del Tempio di Salomone, degli eleusini misteri, delle vie alchemiche, della Sofia, della Gnosi e della Sapienza.
Eppure divide, ebbene,
perché come la creazione divide, così la conoscenza,
e VIC, lo sa.
Lui che ha fissato Linda sul piano eterico, solo per non perderla, lui che ha compreso che la carne, la materia, luciferina, non può che ingannare e dividere, ha trasformato tutti in spettri per poterli tenere con sé, per dirla nuovamente con Carbone, sono le "figurine mnestiche " di Vic, alle quali non vuole assolutamente rinunciare, almeno, non fino alla fine, nel momento in cui comprende che sono tutte inscritte nella sua pelle, nella memoria delle sue mani, in quelle righe di scrittura divina, che tutto svelano.
Racchiuso il tutto,
il tanto agognato FINIRE,
nel calvario salvifico, il martirio della sua ascetica malattia, che gli restituisce un ritratto perfetto dell'esistenza cosmica,
un Mandylion della Veronica , custodito tra le crepe della vecchia casa infestata, nei suoi occhi e sulla scrivania dell'Ipotetico Editore, nonché custode, e presumibilmente anche Creatore della Cosa Pulsante.
Annalisa Pascai Saiu
27/08/2022
A VIC, a Francesco , e a tutti poeti , la cui poesia è sempre più avanti di se stessi.
Per chi volesse farsi un dono : https://www.algraeditore.it/narrativa/vic/
“MINIMAL CUSA Scrittura, poesia e musica “Fuori Rotta” alla Casa delle Erbe della Locride - il:2022-07-09
“MINIMAL CUSA Scrittura, poesia e musica “Fuori Rotta” alla Casa delle Erbe della Locride
9 Luglio 2022 22 0
“Un incontro di carattere è stato quello che domenica 3 luglio si è tenuto alla Casa delle Erbe e delle Agriculture della Locride.
Primo appuntamento estivo del programma outdoor Teatro, scritture e visioni “FUORI ROTTA” per la riflessione su temi peculiari del nostro tempo, nello scenario della vallata sotto il monte Tri Pizzi, ad Antonimina.
La rassegna, alla sua terza edizione, è ideata e curata da Marò d’Agostino, architetto e paesaggista che ha fatto del suo giardino il luogo elettivo di relazioni che si stanno sviluppando dentro e aldilà del territorio locrideo e calabrese a costruire una vera e propria comunità tra coloro che si riconoscono nelle cifre di una qualità naturale del vivere. E dell’arte indipendente un linguaggio con cui parlarsi, una traccia cui riferirsi per conoscere e districarsi nella complessità del mondo.
Fulcro della serata è stato il poliedrico genio creativo di Francesco Cusa, uno dei protagonisti della scena più innovativa e non allineata della musica improvvisata italiana. Batterista, compositore, direttore di diverse formazioni, scrittore e poeta.
Le differenti peculiarità dell’artista catanese si sono srotolate come un papiro prezioso senza stacchi e suddivisioni settoriali con l’attenzione sempre viva e partecipe del pubblico: un dialogo a più voci tra l’autore, la stessa curatrice, il batterista Tonino Palamara, collaboratore della Casa delle Erbe e il giornalista Gianluca Albanese, direttore della testata online Lente Locale che ha introdotto gli stessi.
Si è partiti con la presentazione del romanzo “VIC” – Algra editore (2021), sorta di diario surreale popolato dai personaggi “estremi” d’una provincia “estrema”: esseri reali e immaginari con protagonista principale Vic, un ragazzo-uomo maturo, scrittore irrequieto di incipit. Il romanzo si sviluppa come un continuo scavo psicologico e metafisico teso a smascherare il velo del “tremendo” che pare avvolgere la fisica e la morfologia di Cotrone, luogo immaginario del Sud dell’Italia, dove egli vive.
Senza soluzione di continuità, come del resto suggerito dallo stile di Cusa, segnatamente interdisciplinare e colto, si è poi aperta una finestra su “Il Mondo Chiuso” la raccolta di poesie – Robin Edizioni (2021) – che rivela una dimensione più evocativa e meno caustica del mondo cusano, con un uso creativo della parola che tende a scardinare i limiti della forma e del significato e si articola con ironia su vari piani interpretativi.
Come nel romanzo, i temi del tempo e della morte si intersecano con la costante tensione dell’autore verso una riqualificazione della realtà sociale ed etica e con lo smascheramento di quanto è nascosto e chiuso.
Appunti, letture, ossimori, metafore, aforismi, il dialogo si è calato nell’ atmosfera dolcemente ventilata, intima e condivisa della sera inoltrata; nell’abbraccio generoso delle querce secolari le parole magicamente si sono trasformate in suoni.
Un linguaggio comunque materico è la musica di “Minimal Works” (Improvvisatore Involontario/Kutmusic), magnifica ricerca del FCTtrio che sviluppa un’idea quasi minimalista di composizione istantanea. Formato da Tonino Miano/ pianoforte-keyb, Riccardo Grosso / bass, Francesco Cusa/ drums, compositions, il nuovo organico, che esplora i territori delle composizioni originali e della poliritmia riproponendole in chiave acustica, alla Casa delle Erbe ha accolto le scintille creative dell’istante sviluppando cellule sonore frutto delle influenze ambientali, degli umori del momento, delle suggestioni e, altresì, della raffinata e straordinaria sapienza musicale di ognuno di loro.
Vibrazioni altissime hanno incollato i presenti all’ascolto in un evento da ricordare.”
https://www.lentelocale.it/home/minimal-cusa-scrittura-poesia-e-musica-fuori-rotta-alla-casa-delle-erbe-della-locride/
Recensione “The black shoes” a cura di Giuseppe Attardi - il:2022-06-29
Tra flauto e batteria l’armonica intesa dello Yin e dello Yang
Il progetto “The black shoes” della flautista salentina Giorgia Santoro e del batterista catanese Francesco Cusa. Un duo anomalo che conduce alla scoperta di nuovi linguaggi sonori. «Le scarpe nere sono quelle «consumate del musicista, nelle quali si trova il background di ogni musicista»
Giuseppe Attardi
by
Giuseppe Attardi
22 Giugno 2022
Giorgia Santoro e Francesco Cusa
È possibile far duettare il soave, gentile e delicato suono del flauto con quello rumoroso, invadente e muscoloso della batteria? Sì, se si incontrano due maestri della musica improvvisata, come la flautista salentina Giorgia Santoro e il batterista catanese Francesco Cusa, autori del progetto The black shoes per la coraggiosa etichetta pugliese Dodicilune.
«In effetti, il binomio flauto-batteria è alquanto bizzarro», commenta al telefono Giorgia Santoro. «Per me è stato difficile suonare senza avere come riferimento uno strumento armonico come un piano. Ho dovuto costruirmi questa idea armonica. Mi ha facilitato il tocco delicato e pieno di colori di Francesco che è stato un compagno stimolante e molto creativo».
Giorgia Santoro: «Abbiamo lavorato soprattutto sulle suggestioni. Spesso, quando si suona, è difficile trovare la fine. Nel nostro caso è stato diverso. Abbiamo tagliato appena veniva percepito che il discorso era esaurito»
«Ho cercato soluzioni timbriche diverse… Ho suonato la batteria da anti-batterista», sorride Francesco Cusa. «Ci sono momenti in cui però suono in modo più impegnativo e Giorgia si è adeguata. Si creano passaggi quasi drum’n’bass, sonorità strane. Ho fatto uso anche di campane tibetane e ho giocato con suoni legati ai piatti».
Insieme Giorgia e Francesco hanno cercato e trovato l’armonica alternanza dello Yin e dello Yang, andando alla ricerca delle proprie radici. Cercandole nelle “black shoes”, le scarpe nere e consumate del musicista, «nelle quali si trova il background di ogni musicista», spiega la salentina. «Con l’intento di prendere dal basso per guardare verso l’alto», creando linguaggi sonori nuovi.
Francesco Cusa: «Io avevo già provato altre formule, come batteria e voce, ma questa è davvero particolare. Poi, un giorno, durante una pausa mentre suonavamo in un’orchestra, abbiamo abbozzato un primo duetto»
Se la musica improvvisata è il punto d’incontro, le radici dei due interpreti sono diverse. Sugli studi di musica classica si è formata Giorgia Santoro, mentre il catanese proviene dal jazz. Entrambi, tuttavia, non hanno sdegnato altre esperienze. Cusa spazia dall’avanguardia al funky, dalle colonne sonore alla danza. La flautista salentina ha approfondito le conoscenze del jazz, sperimentando la world music, suonando per Franco Battiato in una Notte della Taranta, per Roy Paci in un suo disco e per altri musicisti pop. A farli incontrare nel loro girovagare per Paesi e suoni è stato Gianni Lenoci, scomparso maestro di jazz pugliese, «punto di riferimento non solo per la Puglia, un intellettuale oltre a essere un musicista», lo rimpiange Giorgia Santoro. «È stato nel corso di un omaggio a Lenoci che ho conosciuto Francesco e da lì è nato questo progetto».
«In effetti era da diverso tempo che ci dicevamo di suonare assieme», ricorda Francesco Cusa. «Sperimentare questo duo anomalo ci stimolava molto. Io avevo già provato altre formule, come batteria e voce, ma questa è davvero particolare. Poi, un giorno, durante una pausa mentre suonavamo in un’orchestra, abbiamo abbozzato un primo duetto».
UNO SCRITTO SUL MIO ROMANZO “VIC” EDITO DA Algra editore. LO SCRITTO È DI Salvatore Nastasi. - il:2022-06-20
UNO SCRITTO SUL MIO ROMANZO “VIC” EDITO DA Algra editore. LO SCRITTO È DI Salvatore Nastasi.
Francesco Cusa sa scrivere, e su questo almeno, mi sento di scrivere che non ho alcun dubbio.
Sa scrivere e ce lo dimostra nel suo romanzo Vic.
Romanzo quasi senza storia, senza trama, uno di quei romanzi per cui sarebbe inutile e ridondante rinnovare il detestatissimo mantra: “Ma di cosa parla questo romanzo?”
Eppure, che romanzo sia (o ad esser pedanti magari racconto lungo) non v’è alcun dubbio.
E non vi è alcun dubbio in quanto l’autore riesce ad evocare istantaneamente e a dispiegare ciò che rende un romanzo tale: un mondo; che poi sia un mondo della mente o un mondo di fantasmagorica provincia è questione per nulla prioritaria!
Francesco Cusa sa scrivere, dicevo. E ce lo dimostra in tanti passi, come l’efficacissimo incipit. Efficacissimo nel mettere da parte ogni dubbio sul fatto che quello che abbiamo tra le mani non è un romanzo contemporaneo come tanti, così frettolosi di introdurci nel mondo reale del protagonista, tutti frettolosi di dispiegare i fatti, i modi, i tempi, i luoghi e le azioni.
Psichedelico e d’atmosfera sin dall’inizio, lo stile di questo romanzo è frutto di letture e di un modo di approcciarsi alla vita e alla scrittura che annuncia chiaramente tutto quello di cui siamo esausti, tutto quello di cui non se ne può più: la famiglia tradizionale, la patria ormai esplosa e ridicola, un dio completamente centrifugato nel vortice dei fantasmi di cui è costellata la narrazione, contorta eppure limpida, un “resto del mondo (che) andava collassando a velocità esponenziale verso l’assurdo della tecnoscienza”.
Torna subito alla mente la migliore tradizione di scrittori in rotta di collisione, definitiva e senza compromessi, con la smania idiota e auto-distruttiva planetaria e con i suoi riti macabri: da ArthurRimbaud a Henry Miller, da Louis Ferdinand Celine a Michel Houellebecq col loro stile teso ad accostare l’inaccostabile, a far deflagrare l’ovvio, il banale.
Ci sono passi di una forza e di una suggestione che fanno venir voglia di prenderli di peso, estrarli e inserirli nel proprio prossimo romanzo: “Detestava i check-in, gli aeroporti e gli aerei, anzi, in realtà, amava volare, ma era terrorizzato dal controllo, dalle norme di sicurezza, era angustiato dall’asetticità del numero (15A, 17F…) e dalla maniacalità del rito delle hostess. Queste gli parevano piuttosto delle infermiere aduse e stanche, delle streghe in divisa, belle anime reiette e dannate al volo.”
Quando il romanzo vira dalla terza alla prima persona e poi ancora alla terza non si può fare a meno di rimanere straniati, ma di questo effetto temporaneo è ovviamente consapevole l’autore che ci trascina nella sua personalissima esposizione del perché proporre al lettore una storia lineare e dai punti fermi sia ciò che esattamente tradirebbe uno spirito dei tempi di cui l’autore osa mostrare la marcescenza, l’inevitabile processo di putrefazione.
Il fascino che il profilo dei morti su facebook esercita sul protagonista e una delle sue amanti (vere o finte, reali o inventate) è d’altronde la cifra perfetta di questo spirito dei tempi che altro non si esplicita se non in immagini di zombie che divorano i loro tempi, eminentemente morti anch’essi, nel riguardare ipnotizzati la fissità di foto del passato e, nella consapevolezza lacerante dell’impossibilità di ogni futuro di speranza, si rifugiano nel ricordo, in un ricordo morto, nel ricordo dei morti e delle loro vite false, nelle immagini selezionate della vuota esibizione di contentezza, morte anch’esse quand’anche in vita.
In mezzo a questi morti, a questi fantasmi, a questi zombie e a questi mezzi in vita, nei tempi assolutamente solipsistici ed eternamente sospesi di un supposto paesino di provincia, pieno di alienati e di trapassati, si muove, o meglio barcolla, incede stentatamente, pirotecnica nella sua mente, il protagonista in viaggi immobili sempre in bilico tra fantasia e supposta realtà, lynchianamente appunto, come viene, forse troppo didascalicamente, scritto.
Ed è che qui che l’asino casca e si azzoppa pure, e, a tratti, non si riesce più a tirarlo fuori da questa voragine!
Ché il linguaggio, pur di una mente in bilico, tante cose può fare, tanto può rivelare, e tanto ci può far capire, ma bisognerebbe sapere dove fermarsi e ci sarebbe voluto un editore, tutt’altro che ipotetico che avrebbe dovuto dirlo, avrebbe dovuto porre una qualche sorta di limite all’estrema indulgenza di certi passi.
Il linguaggio di questo romanzo, per quanto Cusa sappia scrivere, per quanto intenso, evocativo e psichedelico possa essere, a volte non sa chiaramente dove fermarsi, a volte si esagera nell’-auto-riferirsi, ci si compiace di queste scie cosmologiche, si perde completamente di vista qualsivoglia leggibilità.
“Il flusso del suo pensiero attivo continuava a spandersi come la supernova d’una galassia nello spazio siderale del presente” si legge nella prima pagina, e se pure percepisco che è un periodo che può parere e suonare un po’ lungo, un po’ pesante, un attimo astratto, soprassiedo e ne riconosco la bellezza, condono e vado avanti.
E quando si arriva a frasi e periodi spaparanzatissimi come quelli che cominciano a prevalere un po’ troppo specialmente da metà romanzo in poi, passi come quello della descrizione del sorriso di uno dei suoi conoscenti tramite cui si concede la grazia di ammazzare il tempo: “sapeva farsi perdonare in virtù del suo disarmante sorriso, giacché veder sorridere Marcello significava essere abbacinati dalla gioia, aver voglia di fuggire, di scappare nelle terre dei ghiacci perenni e infine vivere la colpa come essenza ultima e definitiva”, un passo che, sinceramente, a me, lascia abbastanza perplesso se non veramente confuso: come può un sorriso essere fonte di cose tante e contraddittorie cose e immagini? E soprattutto a che pro? A che serve questo nell’economia del romanzo?
E che dire di una pagina intera come questa???: “A vivere d’innesti, di confusione e illuminazione si corre il rischio di diventar santi. La dissennatezza del campare, senza soste né respiro, era il frutto della ricerca d’una quintessenza da carpire ogni singolo momento. Perfino lo stare pigramente al mondo appariva oramai atto teatrale funzionale alla mimetizzazione (??????). Occorreva essere vigili e attenti, come guardiani e asgardiani, perfino nel disagio della sbronza, della confusione mentale, della fatica fisica, dello spleen, della depressione. Vic voleva cogliere alla sprovvista la défaillance del Burattinaio, la crepa del Reale; ammesso e non concesso che ci fossero, poi, anche ‘sto Burattinaio e il grumo d’una qualche realtà! Per quanto fosse assurdo, egli ricordava tutto, ed era un tutto dal quale era impossibile scindere anche un solo frammento di non-tutto: un teatro in perenne scena, senza soste (di nuovo?). Una narrazione adiacente, contemporanea al flusso dei pensieri, alle azioni e alle necessità della vita, collocata su una corsia preferenziale della mente, dell’immaginario, del sentire, un canto in perenne evoluzione. E poi c’era la questione della morte, o meglio del morire. A Vic pareva che la morte fosse un epicentro, l’azione stessa della vita, il senso centrale di ogni esperienza, il frutto pulsante dell’iniziazione, l’origine di ogni possibile intuizione. Provava un desiderio d’inconfessabile ammirazione per i bambini addestrati dall’Isis…” (e pur essendo inconfessabile non si risparmia la stoltezza di farcelo leggere…).
Precedono e pure seguono paragrafi e quasi capitoli interi al limite del totalmente sconclusionato ed illeggibile tout court ma in molti casi ciò può dirsi funzionale alle esilaranti ire dell’ipotetico editore che grida chiaro in faccia che queste proposte, pappardelle non pubblicabili.
Accanto a questi che, a mio avviso, sono passi assolutamente falsi, quanto meno nel senso figurato dell’espressione “passi falsi” ci sono però altre cose di assoluto pregio in questo romanzo, non per niente ho cominciato questa recensione scrivendo che Francesco Cusa sa scrivere.
Sono pregevoli le scene del bar di Giovanni, in cui è palpabile l’immobilismo di provincia ma anche la sana ingenuità, l’essere scampati alla ferocia urbana, fantastiche ed effettivamente saporite le evocazioni degli enormi seni di Sally da “talmente belli da generare un senso d’infelicità”.
Ed in generale il piglio con cui l’autore descrivere l’attrazione di Vic per il corpo femminile e il fascino, anche se morboso o proprio perché morboso, con cui descrive i corpi, il corpo degli altri, il proprio corpo, la cura del dettaglio, la confidenza e la facilità che ha l’autore nell’evocare sapientemente e in maniera sempre varia e spesso straniante la materia, lascia veramente ammirati.
Anche i pochi dialoghi, specialmente quelli della gita alla presentazione del libro del falso libertino di provincia, o quelli del ritrovo con Marcello, Luisella, i quattro amici dementi e tutto il corteo di fantasmi rutilanti colgono veramente nel segno.
Da ultimo Vic, questo romanzo è scorrevole, al di là dei passi ridondanti, che ribadisco, mi è sembrato di trovare.
In definitiva una bella prova narrativa di Francesco Cusa,un romanzo audace e coraggioso che meriterebbe sicuramente molti più riscontri nel panorama letterario quanto meno nazionale e di cui mi sento caldamente di consigliare la lettura.
#vic #francescocusa #libri #romanzo #algraeditore
Recensione di "Human Pieces" a cura di Percorsi Musicali - il:2022-06-12
Qui si tratta dell’incontro di quattro musicisti che non hanno mai collaborato tra loro e che tentano di unire le loro sensibilità per variare le tonalità emotive della musica proposta: ecco in breve il nuovo progetto uscito da poco per l’etichetta britannica Leo Records, che vede Tonino Miano al pianoforte, Brian Groder alla tromba, Riccardo Grosso al contrabbasso e Francesco Cusa alla batteria, unirsi in Human Pieces.
Di primo acchito l’intesa tra i quattro si regola sulla propensione, ricordando in questo la pittura di Francis Bacon, a sfuggire i clichés, come ricorda il filosofo Gilles Deleuze:
”…È quando la probabilità ineguale diventa quasi una certezza che posso iniziare a dipingere. Ma a quel punto, una volta che ho iniziato, come fare perché quanto dipingo non sia un cliché? Bisognerà eseguire prontamente dei “segni liberi” all’interno dell’immagine dipinta, per distruggere in essa la nascente figurazione e dare una possibilità alla Figura, che è l’improbabile stesso. Questi segni sono accidentali, “a caso”, ma è evidente che qui la stessa parola “caso” non designa più in alcun modo delle probabilità, bensì un tipo di scelta o di azione senza probabilità. […] Riguardano solo la mano del pittore…”
La fluidità caratterizza l’intero bilancio della proposta, la musica che si ottiene assume le forme più disparate. Le linee tematiche si esprimono con una calma inusuale (Neon Eyes) ripetendo piccole cellule tematiche, rallentando il ritmo. L’operazione collima con il concetto di musica del batterista Milford Graves: ”…va regolata nell’atto stesso della sua creazione. Come la vita si realizza a ogni istante in maniera sempre nuova e fresca, cosi deve avvenire per la musica…“
Miano si caratterizza per il suo approccio percussivo che si mantiene in una continua indecisione tonale corroborato dalla tromba di Groder che in ogni traccia pare essere lo strumento trascinante.
Human Pieces vede Cusa aprire il brano con un lento flusso su cui piano e tromba si inseriscono. Dalle battute iniziali cupe e cerebrali, con l’entrata in campo del contrabbasso, la solidità del brano esplode in un trascinante vortice di reiterazioni di concetti.
In Twenty fingers in a Pond una debordante energia scaturisce dal piano di Miano, dal timbro sottile e ricco, si coglie l’amore per il pianismo di Cecil Taylor, ma le geometrie delle linee melodiche sono più esatte e spigolose, denotano un approccio più lucido.
La tradizione bop si riconosce e si disperde confusamente in più di un brano, Skittles Heavy incorpora il blues e le le tonalità emotive sfociano in parossismi esasperati complice la batteria convulsa e spietata. Bellissima la ripresa del chorus.
In Nails in the Sky piano e batteria reiterano piccole frasi ritmico-melodiche, consentendo alla tromba di Groder di dispiegare un lirismo trattenuto, quasi involontario.
Questa musica fluttuante che rimodella il suono riattualizza la tradizione del free jazz, come ricorda Davide Sparti: ”…Il free jazz in genere riabilita le tessiture musicali e le sonorità a scapito della purezza formale e strutturale, ponendo l’enfasi sull’intensità e la coloritura sonora quale principio su cui costruire l’improvvisazione…”.
Non si tratta di riprendere la lezione del free jazz ma di comprenderla nuovamente, di esaltarne alcuni aspetti senza quell’urgenza originaria ma seguendo una visione postmoderna, giocosa con la consapevolezza del proprio ruolo di musicista.
L’intento in questo senso ci pare riuscito, la rabbia e l’urgenza, che caratterizzavano il free jazz storico, lasciano spazio ad un approccio ludico che permette di evidenziare dei comportamenti omogenei e descrivere con maggior coerenza la contemporaneità.
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